“Cose da pazzi” per Einaudi. Palermo nel quotidiano

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Evelina Santangelo (di cui mi piace ricordare la cura di un libro straordinario come Terra matta) scrive con Cose da pazzi (Einaudi) un romanzo fitto fitto sulla città di Palermo.

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“Lo sguardo di Lily”

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“Wilson, sei venuta a prenderti cura di me?”. “Sì, miss”. Nel romanzo Lo sguardo di Lily di Margaret Forster (La Tartaruga 2012), questo breve dialogo tra padrona e cameriera sarebbe stato l’incipit di un lungo rapporto nel quale la cameriera Lily Wilson avrebbe presto compreso l’importanza e il valore del legame che la univa alla sua padrona la poetessa inglese Elisabeth Barrett. “Sentiva che le era necessaria e dipendeva da lei, e rispondeva dando di sé più di quanto il mero dovere richiedesse”.

Londra 1844. Nella “casa rispettabile e accogliente” al numero 50 di Wimpole Street di Mr Barrett, Wilson, chiamata per cognome perché domestica, era giunta da Newcastle per prendersi cura della figlia preferita del padrone di casa. La fragile Elisabeth, dipendente dagli oppiacei, trascorreva la maggior parte del tempo rinchiusa nella sua stanza in compagnia dello spaniel Flush viziato e “ben nutrito”. La poetessa aveva avuto finora “una vita triste con tante malattie e delusioni”, circondata dall’amore del padre e degli 11 fratelli. In una stanza che sembrava una tomba, sempre surriscaldata perché Elisabeth temeva il freddo, la donna talmente “magra che sembrava una bambina”, si lasciava vivere perché la sua vera malattia “era l’infelicità”. Lo stesso anno dell’arrivo di Lily, Elisabeth aveva pubblicato Poems la sua prima raccolta di poesie che aveva ottenuto un buon successo. Una lettera “è del poeta Robert Browning sul mio lavoro. Sono contenta di averla ricevuta”, avrebbe cambiato il corso degli eventi. Anche se per Mr Barrett “la felicità di sua figlia era la cosa più importante del mondo”, egli era profondamente “contrario a tutti i matrimoni, chiunque sia lo spasimante”, quindi dopo essersi sposati di nascosto, Robert ed Elisabeth erano fuggiti verso l’Italia “dove il sole splendeva tutti i giorni”. “Era come se fosse su una giostra, tutto girava e l’euforia del movimento soffusa del desiderio che si fermasse”. Unica testimone della nascita del loro amore “era evidente che lì c’era amore in tutto il suo splendore” la fedele e devota Lily che aveva deciso spontaneamente di non abbandonare la sua padrona. “Verrai? Ci resterai fedele?”. La figura e l’impegno costante di Wilson sarebbero stati essenziali per Ars Barrett Browning sia durante il faticoso e sfibrante viaggio, sia durante la vita in Italia prima a Pisa e poi a Firenze “era vivace e piena di donne inglesi” a Palazzo Guidi e sia durante la gravidanza di Elisabeth e la nascita del piccolo Wiedemann chiamato Pen. “Un salto nell’ignoto, ecco cos’era. Tutta la sicurezza e tutta la stabilità sarebbero scomparse. La responsabilità della sua padrona sarebbe toccata a lei, per quanto buono fosse il marito”.

Lady’s Maid è il sensibile ritratto di un lungo rapporto, sfociato in confidenza e amicizia reciproca tra Elisabeth Barrett Browning e la sua governante. Nelle lunghe lettere che Lily inviava alla madre “lei scrive e scrive, mamma… ”, alle sorelle e alle amiche Lizzie Treherne e Minnie Robinson, governante di casa Barrett, piano piano il lettore scopre il mondo di Elisabeth visto attraverso lo sguardo acuto, partecipe e intelligente di Lily. È, infatti, la devota governante, la protagonista di questo bel volume, la sua vita all’ombra di una delle più stimate poetesse della letteratura inglese del XIX secolo. Nella postfazione l’autrice precisa che “in questo romanzo fatti e finzione sono stati intrecciati così strettamente che potrebbe essere utile sapere esattamente in quale misura siano basati sulla realtà. Elisabeth Wilson è realmente esistita… ”. Non era stato semplice per Lily lasciare la madre e le sorelle anche perché “ciò che lei amava era il familiare, lo sperimentato. Per lei non c’era piacere nel cambiamento”. E invece Lily avrebbe conosciuto Londra, Parigi e l’Italia, imparato ad amare la poesia, la bellezza annullando la propria esistenza a favore di quella della sua padrona, sempre un passo indietro, su e giù per le scale, devotamente fedele fino alla scomparsa della poetessa avvenuta nel 1861, nonostante tutto. “Adesso poteva essere se stessa e non avvelenare quello che le restava della propria vita con rimpianti e risentimenti”.

Margaret Forster è nata a Carlisle in Gran Bretagna nel 1938. Romanziera, biografa e critica letteraria, è una delle scrittrici inglesi più amate e acclamate. Tra i suoi maggiori successi ricordiamo le biografie su Elizabeth Barrett Browing e Daphne Du Maurier e i romanzi Diary of an Ordinary Woman, Is there Anything You Want?, Over e Isa and May. Per La Tartaruga edizioni nel 2010 è uscito Lasciando il mondo fuori che ha conseguito un buon successo di critica e pubblico.

Lo sguardo di Lily è tradotto da Fenisia Giannini Iacono

Autore: Margaret Forster

Titolo: Lo sguardo di Lily

Editore: La Tartaruga

Anno di pubblicazione: 2012

Prezzo: 22,00 Euro

Pagine: 564

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Materiale altamente resistente

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Materiale altamente resistente è un libro che sta a cavallo tra il romanzo e la raccolta di racconti. E in effetti ci sono quattro racconti, ma tra di loro c’è un filo che attraversa queste storie in modo così resistente che ci viene da pensare più a un romanzo corale che a una raccolta. Ed è materia forte, resistente per l’appunto, quella che maneggia Carannante. Una materia che quando prende forma dà vita al plastico di una Napoli feroce e selvaggia. Sono storie che riguardano soprattutto Napoli, perché Napoli è una città dall’anima inconfondibile, ma basta allontanare un po’ lo sguardo per vedere il panorama di una grande periferia globale. Ed è il tema della “resistenza” forse, intesa sia come durezza degli animi e delle coscienze sia come opposizione morale e civile, il tirante che dà una sostanza e un’unità alle storie.

C’è la storia di un ragazzino che vive in un quartiere periferico, uno di quelli che non sfigurerebbe in Gomorra di Garrone. Un gomitolo di palazzine dove l’unico luogo di pace è il terrazzo di casa, quello dal quale si può comunque vedere Jasmine farsi di eroina. Di eroina il padre e la madre gestiscono un florido commercio, un’attività condotta con una precisione che spacca il grammo e caratterizzata dal via vai d’intermediari dello spaccio che portano i pittoreschi (almeno per noi) nomi di L’Inglese e Il Pensionato. La normalità è vissuta all’ombra del mito del Professore ed è solo un po’ distorta dalla consapevolezza di dormire accanto a un rifugio per malavitosi, un buco scavato tra i muri. Sullo sfondo il pericolo incombente di un padre allunato e sempre in fuga, costantemente ossessionato da un mantra di sopravvivenza: fottere gli altri prima che gli altri fottano lui.

C’è anche la storia di Vincenzoblu, un bellissimo racconto che è una declinazione in chiave malata della favola di Peter Pan. Vincenzo è fermo al 1982, anno della vittoria dell’Italia ai Mondiali e momento apice della sua adolescenza. Parcheggiato all’Università da anni Vincenzo si tiene ancorato alla giovinezza con litri di botox anzitempo spalmati in faccia, un ciuffo fuori moda sempre più diradato e una maglietta blu da calciatore nazionale anni ‘80. Tra le repliche di Happy Days e le canzoni dei Queen passa le giornate organizzando furtarelli con Antonio, liceale proprio sul punto di crescere. Il tempo scorre così verso una separazione da Antonio e da soprattutto da sé stesso che Vincenzoblu non vuole e non è in grado di accettare.

Autore: Antonio Carannante

Titolo: Materiale altamente resistente

Editore: Ad est dell’equatore

Anno di pubblicazione: 2011

Prezzo: 10 euro

Pagine: 96

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“La cucina degli ingredienti magici”

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Oltre ad essere una giornalista, Jael McHenry è una cuoca appassionata e nella sua opera prima ci trasmette tutto il suo amore per ricette ed ingredienti, mescolando con grande leggerezza elementi soprannaturali e realtà molto difficili da affrontare. La cucina degli ingredienti magici (Corbaccio, 2011) avvolge il lettore con i vapori, i profumi, le sensazioni tattili provenienti dalla cucina di Ginny, lasciandolo con il preciso desiderio di provare esperienze semplici e rilassanti come osservare le cipolle che lentamente assumono un colore dorato o i cibi che, durante la cottura, pian piano si trasformano in qualcosa di diverso. Continue reading

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Conversazione con Marcacci

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Gobbi come i Pirenei esce nel 2011. Esordire a 48 anni non è da tutti, viene spontaneo chiedersi: questo è il primo libro che hai scritto o solo il primo che hai pubblicato?

Quello che ho scritto nei ringraziamenti finali del libro è tutto vero. Ho scritto tanto, ma senza una vera e propria finalizzazione. Tante storie abbozzate in vari periodi della mia vita, come schizzi su tele che poi sono state lasciate a marcire in soffitta. Poi un giorno leggo la storia di Randy Pausch e mi cambia la visione del mondo. Randy ha saputo darmi la forza e la carica per convincermi che avrei dovuto provare davvero a fare quello che ho sempre voluto fare, cioè raccontare le mie storie e provare a far star bene la gente che leggesse ciò che so fare meglio: creare suggestioni! Non ho mai avuto l’ambizione di diventare uno stimato scrittore con l’imprimatur di tutti coloro che credono che occorra seguire le regole che ti insegnano nei corsi di scrittura. Quello lo lascio fare a chi scrive libri che sono impossibili da finire e che ti rompi le palle di leggere a pagina venti. No, io ho sempre voluto arrivare al cuore della gente. Parlare al loro bambino interiore per dirgli che forse leggendo me non si imbatteranno in un nuovo Joyce o in un Foster Wallace, ma avranno trovato un amico con cui passare del tempo con il sorriso in bocca. E magari sentiranno la mia mancanza una volta finito il testo. Quella è la mia vera ambizione. Ho pubblicato tardi perché sono anche riuscito a resistere alle sirene dell’editoria a pagamento. L’EAP è il cancro del sistema e va combattuta con tutte le forze. Non pagherei mai per essere pubblicato. È una cosa umiliante e svilisce anche il lavoro di tutti quelli che scrivono davvero e lo fanno con impegno e amore. E bravura. Le case editrici a pagamento andrebbero boicottate in ogni modo, purtroppo hanno anche tutele legali che gli garantiscono un’impunità che non meritano.

Questa è una domanda che può sembrare banale, e che in parte si ricollega con quella sopra, ma che io considero particolarmente importante. Come sei arrivato alla scrittura? Come e quando hai iniziato a scrivere?

Io rido a crepapelle quando leggo interviste di “geni” precoci che si gloriano di aver cominciato a scrivere a sei anni e che già allora erano in grado di poter sedurre e attrarre gente con le minchiate che vergavano sul foglio. Anche io scrivevo da ragazzo, come tutti. Ma un conto è scrivere un diario un conto è trovare il modo di dipanare la matassa per poter riuscire a scrivere anche solo un racconto. E checché se ne dica è un processo di maturazione lenta che non ha paletti predefiniti che varia da persona a persona. Cominci a scrivere cose illeggibili e poi ti affini e poi scopri dentro di te il piacere di farlo e la voglia di migliorare. Poi perdi interesse e ti dedichi ad altre cose, ma se hai il demonio dentro per questa cosa, lui torna a cercarti e ti impone di rileggere ciò che avevi fatto in anni passati. E tu pensi “guarda te che boiata ho scritto”. E ti vergogni e sei felice di non averlo mai neanche proposto a un editore. Poi guardi meglio e trovi, in mezzo alla cacca che hai tirato giù, anche un paio di cosucce carine che ancora ti piacciono e pensi “però, potrei anche sviluppare questo” e piano piano, processo dopo processo, ti ritrovi che senza saperlo sei in grado di scrivere un pessimo romanzo. E là si riparte. Tempo, rilettura, riscrittura e di nuovo pause e poi ancora di nuovo. Fino a quando scrivi qualcosa che qualcuno trova interessante. In altre parole scrivere è fatica. E chi dice il contrario mente sapendo di mentire.

Parliamo del processo di scrittura di Gobbi come i Pirenei. Quanto tempo è passato dal primo barlume di idea al manoscritto stampato e imbustato per gli editori? E, ovviamente, come sei arrivato dall’“inizio” alla “fine” di questo libro?

Moltissimo tempo. L’idea di fondo l’avevo scritta qualche anno prima. Uno degli schizzi di cui ti parlavo. Mi piaceva la storia. Quella storia. Avevo scritto una cinquantina di cartelle e poi avevo detto che poteva bastare. La mia vita aveva sterzato e dovevo seguirla, lontano dal mondo della scrittura. Bollini però ogni tanto veniva a trovarmi in sogno e mi insultava e mi diceva che ero un maledetto perché non gli davo voce. Io pensavo che scherzasse. Fino a quando quel brutto ceffo ha cominciato a perseguitarmi davvero e a dirmi che me l’avrebbe fatta pagare. È stato allora che avendo letto di Randy Pausch e avendo visto la sua ultima lezione (che consiglio a tutti, poiché si può trovare oltre che su libro anche su You Tube pure con sottotitoli in italiano) mi sono deciso a organizzare il lavoro. Se dovevo seguire i miei sogni di bambino, come dice Randy, ho pensato che avrei voluto anche scrivere un romanzo senza regole classiche ma solo con ciò e nei modi che mi sarebbe piaciuto leggere a me. ‘Affanculo i corsi di scrittura e lo stile degli scrittori già famosi. Inutile copiare chi sa fare quelle cose meglio di me, io volevo solo dar voce al mio stile, semmai ne avessi avuto uno. Insomma io volevo un romanzo dove si ride ma ci si commuove, dove si imparano cose nuove o comunque si ha lo stimolo a provare a cercarle. Un romanzo che parlasse di filosofia ma che nella stessa pagina fosse presente Groucho Marx a braccetto con Kant. Un romanzo dove la storia d’amore doveva esserci ma al servizio di un processo che avrebbe dovuto far arrivare al lettore a vedere il mondo con occhi diversi. Sì ok, me ne rendo conto, tutti obiettivi ambiziosi e mal conciliabili. Ma io volevo assolutamente farlo così. Quello mi chiedeva Bollini. E la soddisfazione più grande è vedere che, alla faccia di Foster Wallace e dei suoi seguaci, il mio libro trova tanti lettori che la pensano come me. Questa è la cosa più gratificante di tutto.

Gobbi come i Pirenei non è precisamente un libro sul ciclismo, ma di ciclismo se ne respira comunque tanto. Qual è il tuo rapporto con le due ruote? Sei tu stesso un ciclista o ti sei dovuto documentare per scrivere il libro?

Amo il ciclismo. Il ciclismo è il secondo sport nazionale in Italia dopo il calcio. Non l’ho mai praticato a certi livelli ma a quello amatoriale sì. E come in tutti gli spaccati di mondo ci trovi persone fantastiche e benemerite teste di cazzo. Però davvero credo che nella sua accezione più pura abbia pochi rivali. E quando Bollini dice che insegna salire e scendere le montagne anche della vita è proprio vero. Insomma la vita, come metafora, non trova niente di meglio che il mondo a due ruote. Sofferenza e necessita di non mollare. Senso di squadra e spirito individualistico. Conoscevo già tanto del ciclismo ma lo stesso è stato necessario uno studio su alcuni parti che avrei dovuto conoscere meglio.

Eugenio Bollini ha un rapporto controverso con il suo quoziente intellettivo, in un certo senso lo vive come una gabbia e un’ossessione. Tu hai mai avuto la tentazione di farti misurare il Q.I.?

Io e Bollini siamo fratelli siamesi e quindi abbiamo anche lo stesso Q.I. e pure io soffro delle manie che perseguitano il protagonista del romanzo. Ed è come dici tu. È come vivere in una specie di gabbia maledetta che le persone che non hanno il nostro quoziente non percepiscono, riuscendo a vivere con molta più leggerezza di noi, che la vediamo senza sapere come uscirne. L’ossessione nasce dal fatto che per quelli che invece ne hanno di più di Q.I., la gabbia che noi 130 troviamo sempre chiusa,  ha la porta aperta e possono uscirne come e quando vogliono. Questo è il problemone per quelli che riescono a percepire i drammi del mondo ma non riescono a modificarli. A volte ti viene davvero la voglia di farti asportare un pezzo di cervello per riuscire a non vedere ciò che vedi. Fino ad oggi però non l’ho fatto perché la ASL non mi vuole rimborsare l’operazione. Dice che siamo in tempo di crisi e ci sono stati tagli anche su queste cose.

Bollini è un uomo divorziato, un padre part-time e un ciclista mai realizzato. Il romanzo è una corsa di riscatto dalla mediocrità alla realizzazione. In questo senso si può considerare un romanzo di formazione, definizione che di regola andrebbe applicata a quei romanzi che trattano del passaggio dall’adolescenza alla maturità. Bollini è un adolescente in ritardo? Oppure pensi che ci sia la necessità, arrivati all’età adulta, di una “seconda maturazione”?

Assolutamente la seconda che hai detto. Bollini è il classico uomo che sta per entrare nella sua età “di mezzo” e che deve compiere la seconda maturazione. La prima riesce all’incirca a tutti. Attorno ai 20 anni, chi prima chi dopo, tutti quanti si staccano dal loro habitat adolescenziale e cominciano a vivere. E tutti, chi più chi meno, hanno sempre grandi sogni. Attorno ai 35 arriva un momento in cui si comincia a fare i conti con quello che si è fatto e con quello che avremmo potuto fare. Quello che la teoria economica chiama costo-opportunità. Inevitabili i primi bilanci. E qua, proprio dove si trova Bollini in Gobbi, può avvenire la seconda e più importante maturazione. E, attenzione, non è mica detto che avvenga davvero. Insomma conosco tanti uomini che ancora oggi sono convinti a 50 anni di essere degli scienziati nei loro campi e che solo il caso, la sfiga o qualche amico stronzo non li ha fatti diventare quello che gli era dovuto per diritto divino. In altre parole accettare i propri limiti è la vera seconda maturazione. Accettarli senza farsi del male pensando di essere mediocri, e senza farlo agli altri pensando e dicendo che è colpa loro, è per chi ci riesce una rivoluzione copernicana. Riuscire a volersi bene anche se si comprende che c’è chi è più bravo di te, e riuscire a non invidiare in modo sbagliato chi che invece ce l’ha fatta a raggiungere i suoi sogni

La mediocrità deve necessariamente essere considerato un anti-valore? Si può distinguere una mediocrità positiva da una negativa?

La mediocrità non esiste. Questo è il vero messaggio del romanzo. L’obiettivo principale del romanzo è dimostrare che la mediocrità non esiste. Non che c’è n’è una positiva e una negativa. No, semplicemente non esiste. Esistono dei giudizi che portano a pensare che qualcuno, persino noi stessi, lo siamo davvero. Se riusciamo, come dice Bollini alla fine del romanzo, a scardinare questo lucchetto che è il “giudizio” la porta di cui parlavo prima si apre e possiamo finalmente essere liberi. La mediocrità o la grandezza non esistono se non ci sono degli standard di riferimento. È tutto là. Noi viviamo in un mondo dove ci vengono imposti standard di vita e di comportamento che spesso sono inaccettabili ma che, soprattutto i media, ci inculcano per plasmarci a loro piacimento. Riuscire a liberarci da questi schemi precostituiti è la vera lotta di Resistenza. Bollini ci insegna come farlo. Ben sapendo che ci saranno ricadute e che non sarà una passeggiata. Ma ce la si può fare. Per questo Gobbi è un romanzo di speranza. Se ce la fa Bollini può farcelo chiunque.

Possiamo dire che per Bollini gli antidoti alla mediocrità sono l’ironia e l’amore? Quali sono i tuoi personali antidoti?

Bollini pensa che essere ironico lo protegga dal mostrare a tutti la sua supposta mediocrità. Ma il gioco sta proprio qua. Bollini non è un mediocre. Bollini si sente un mediocre. Insomma è una persona con un Q.I. sopra la media, un professionista nel mondo dello sport, sa pensare, parlare, ha un discreto successo con le donne. Che c’è di mediocre in questo? Niente. Eppure lui si sente tale. È qua che ruota il romanzo. Tra come si è davvero e come ci sentiamo. Tra quello che vorremmo essere e quello che non siamo. Uno può vincere anche un Nobel e sentirsi mediocre. Pare una sottigliezza ma è una cosa fondamentale. Io ho smesso di prendere antidoti perché mi sono accettato per come sono. Non nutro invidia per chi pubblica in case editrici importanti ad esempio. È probabile che loro siano migliori di come sono io, o più funzionali alle logiche di mercato. Chi se ne frega. Sono concentrato su quello che voglio e cerco di capire se posso soddisfare i miei bisogni o no. Ma se non ne ho la capacità non mi faccio più male come succedeva un tempo.

C’è stato un momento della tua vita in cui hai dovuto fare il salto che fa Bollini, da gregario a velocista?

Mi è capitato il contrario. Mi è capitato di esser partito capitano e poi di esser diventato all’improvviso  un gregario. Ed è là che ho capito che, come qualcuno migliore di me ha già detto, è meglio essere capitano della mia barchetta che mozzo nella nave del capitano Achab.

Cosa fai nella vita oltra a essere uno “scrittore”? E come fai a conciliare la scrittura con l’esigenza di mettere in tavola il pranzo e la cena?

Ho una piccola società commerciale che gestisco con mio fratello e un caro amico. La scrittura non paga le bollette. Non a quelli come me. Scrivo quando posso. Come tutti quelli nelle mie condizioni. I precari della penna sfruttano i buchi, i momenti liberi, a volte la notte. Non nego che è un problema dover spiegare in certe situazioni alla gente che ti sta intorno e che vuole parlare di lavoro “vero” del perché io abbia a volte il volto trasognato o lo sguardo perso. Capita a volte che, proprio nei momenti sbagliati, mi venga l’illuminazione su qualcosa che ho pensato di scrivere qualche tempo prima e sulla quale mi ci ero arrovellato per ore. Ed è una vera sofferenza non poter rispondere “presente” ogni volta che il demonio ti chiama. Ma si sa, la vita non è giusta per nessuno

Quali sono i tuoi prossimi obbiettivi come scrittore? E sto parlando di scrittura… non di libri… quella è la prossima domanda!

Bella domanda. Ti confesso allora che il mio prossimo obiettivo è scrivere qualcosa in terza persona. Fino ad oggi ho scritto sempre con l’io narrante. Mi sento molto in confidenza con questa tecnica. È intrigante e permette di esplorare alcuni aspetti interiori ai personaggi che molto si confà al mio modo di scrivere. Sento però adesso la necessità di una nuova sfida che è quella appunto del romanzo in terza persona. Per come la vedo io, il primo modo, incorpora molta più azione di quanta ne è presente in questa seconda che invece abbisogna di più descrizioni che azione. Fino a oggi non l’ho mai sperimentata. Non in modo decente intendo. Ho qualche idea in testa e sto provando a vedere come funziona. Se funziona, soprattutto.

È il uscita il tuo nuovo romanzo. Puoi farci qualche anticipazione?

È un romanzo diverso da Gobbi. Sono diversi i momenti della mia vita in cui li ho scritti ed è diverso anche l’approccio al libro. In Gobbi il messaggio di speranza è molto forte e chiaro. Il tono è finto goliardico con punte di riflessione  che mi piace pensare siano di spessore. In questo nuovo romanzo Il ritmo del silenzio edito da Edizioni della Sera di Stefano Giovinazzo, ci sono soprattutto due temi centrali che regolano la narrazione. La nostalgia per una grande amicizia e il tempo. Due temi a me molto cari al momento. Ho cercato attraverso una storia, che spero possa essere interessante, di raccontare il senso della parola “amicizia”, che spesso è abusata per descrivere qualcosa che non è che semplice conoscenza. E poi di giocare con il concetto di tempo. Questo parametro maledetto della nostra vita terrena che ci inchioda alle sue regole. E allora ho pensato di tirargli io uno scherzo, facendolo andare al contrario, ogni tanto. Qualche volta facendolo accelerare e qualche volta facendolo andare al rallentatore. Ho scritto Il ritmo del silenzio con in mente un blues. Ed è scritto alla maniera in cui viene scritta una canzone blues. Un basso costante che detta il ritmo, che è la voce di un protagonista e una melodia dettata dalla voce di un altro protagonista, che alla fine, nelle intenzioni dell’autore, si fondono per il medley finale. Il libro ha avuto, per molti aspetti, una gestazione dolorosa che ha avuto però come risultato finale quello di averlo fatto diventare solo che molto più caro al mio cuore. Mi piacerebbe tanto che tutti quelli che hanno amato Bollini, amino anche Marco, Totò e Henry che sono i protagonisti di questo nuovo romanzo.

Due (anzi tre) curiosità: Qual è il libro che ti ha fatto innamorare della lettura/letteratura? Quando hai iniziato a leggere?

Lo so, adesso se fossi uno di quegli scrittori “ganzi” dovrei tirar fuori Dostojetsky o qualcosa di simile. Mi chiedi chi mi ha fatto innamorare della letteratura e io invece di tirar fuori un grosso nome ti dico che banalmente quando ero bambino Edgar Rice Burroughs ha davvero cambiato la mia vita. Sono stato influenzato da molti scrittori ma quando ho letto Burroughs e il suo Tarzan  mi si è aperto un mondo di fronte. Quindi è colpa sua se sto qua adesso ha rompere le scatole  perché  quando ero bambino per me Edgar Rice Burroughs è stato davvero magico. Ho iniziato a leggere molto giovane, ma ho sempre amato svariare. Adoravo e ancora oggi non li disdegno persino i fumetti. Mi piace leggere le poesie ma contemporaneamente  non nego occhiate anche a giornali di basso spessore culturale. Tutta questa confusione credo si noti nella mia scrittura.

Puoi confidarci qualche tic o abitudine da scrittore?

Anche se temo che non si percepisca dalla lettura, sono un maledetto perfezionista. Io correggo le mie frasi in continuazione. Non riesco a fermarmi. Sono capace di cambiare parole o verbi o strutture anche venti o trenta volte prima che mi soddisfi la versione definitiva. E poi dopo qualche giorno che la rileggo, penso “No cazzo, così non funziona” e si ricomincia. In effetti mi piace molto più rileggermi e correggermi che scrivere su un pezzo di carta bianca. Alla fine è diventato un vero e proprio tic. Chi mi conosce sa che ad un certo punto devi obbligarmi a dire basta altrimenti io andrei avanti all’infinito.


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“Il quadro del mondo”

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Il quadro del mondo è il primo libro di Gerry Gherardi. Si tratta di una raccolta di poesie accorate e palpitanti, all’insegna di sentimenti onesti e genuini. Il tema conduttore del volume è l’amore, affiancato a un’autobiografismo soave e a tratti malinconico. Da un lato, assistiamo alla vocazione al canzoniere, inteso come cronistoria dell’Io delle più svariate sfaccettature del sentimento amoroso, dall’altro, invece, sembra rifuggirlo ed aspirare al nobile quanto ardito tentativo di approdare al romanzo in versi.

Il verso, infatti, tende spesso al prosastico ma, altrettanto fermante, lo elude tenendo sempre alta la tensione poetica attraverso una serie si strumenti linguistico-poetici propri della materia lirica.  Gherardi ricorre spesso all’utilizzo dell’anafora (come perdersi per caso/ … come un bimbo innamorato), di incisi che destano subito l’attenzione del lettore (M’innamorai della malinconia), di cesure per cadenzare il verso e degli enjambement per rendere più fluida e avvincente la narrazione. Come già detto, si può leggere tra le righe un’indubbia vocazione al romanzo in versi. L’utilizzo di assonanze e consonanze, in buona sostanza, conferiscono una maggiore musicalità interna ed estrinseca al verso, mantenendo sempre intatta la tensione poetica dei testi. Le liriche di Gherardi si prestano ad essere lette sia  singolarmente che come capitoli di un continuum narrativo. Ogni poesia appare, infatti, compita, sia che si tratti di un componimento lungo che di un frammento, e ogni immagine o storia narrata viene scandagliata nelle più intime sfumature.  Ogni componimento, in definitiva, è come se costituisse un tassello di un unico puzzle la cui cornice è costituita dalla campagna toscana o laziale, dall’Io narrante, dalle figure familiari e da quella femminile. L’autore stesso è un profondo conoscitore della sfera femminile, un’anima sensibile che non fatica ad entrare in comunione con l’altro sesso.

Se, da un lato, il paesaggio è caricato delle sensazioni filtrate dal poeta, dall’altro rifugge il petrarchismo poiché l’Io non ha bisogno di mediazioni ed è quasi sempre espresso in prima persona e si oppone a maschere e cristallizzazioni.

Il linguaggio di Gerry è quello del quotidiano, depauperato ma non povero, soprattutto essenziale. È evidente, a mio avviso, il debito verso una certa tradizione novecentista, sia italiana (Bertolucci, Montale, Ungaretti)  che francese (penso soprattutto ad alcune bozze scenografiche alla Prévert), nell’uso della strofa (per lo più regolare), della rima interna e della cesura che appare sulla falsariga del Pavese di Lavorare stanca. Mi riferisco, in particolare,  ai paesaggi di campagna, ai papaveri, alle colture e alle atmosfere trasmesse che può definire così bene solo chi si è sporcato le mani con il lavoro dei campi e con il sudore.

Lo sfumato del lessico, del ricordo e delle narrazioni in genere e il fluire del tempo, costituiscono nella poetica di Gherardi due vere e proprie “ossessioni” semantico-tematiche. Espressioni come “voci lontane”, “un giorno lontano” e “un canto lontano” sono sparpagliate un po’ ovunque, come se l’autore volesse leopardianamente suggerirgi la poetica del vago, sulla falsariga dell’aedo marchigiano. Il tempo, invece, è visto come incombente e spietato, una ruspa che tutto spiana e una bussola a cui tutto si riconduce. Basti segnalare espressioni come “rughe del tempo”, “nel silenzio dei tempi” o “sul viso del tempo”. L’amore, filo conduttore dell’opera prima di Gerry Gherardi, è approfondito e investigato da ogni punto di vista: come souvenir di gioventù,  come idealizzato o immaginato, come empirismo gioioso o provante, come amore sponsale che si rinnova o sentimento fraterno e rassicurante per una persona cara o un  familiare. L’autore toscano dedica il libro ai propri nonni.

In conclusione, il libro del nostro scrittore riesce a farci cogliere, sin dalle prime righe, tutto il calore dei sentimenti più  veraci e genuini e  l’agrodolce della vita quotidiana, strettamente connessi ad un Io poetico incline al realismo e ad un lirismo assolutamente esente da qualunque forma di retorica o autocompiacimento.  Il fatto che Gerry sia anche un attore di teatro ci aiuta a meglio chiarire la struttura di alcuni suoi componimenti i cui versi si susseguono come fotogrammi di una pellicola o cambi di scena di palco: “lei, / nuda, / coperta di seta / sulla pelle, / zucchero a velo / trasparente, leggero …”

Da un punto di vista linguistico e tematico, il libro si segnala anche sorprendente unità strutturale che appare soppesata e raffinata, frutto di un’attenta ricerca e meditazione semantica ineccepibile: “M’innamoro di te / come il vino nel bicchiere,  / rosso di terra / nell’ora del sole / che muore sui monti / tutte le sere.”

Il quadro del mondo è il primo e prezioso lavoro di Gerry Gherardi. Francamente, ci auriamo di vederne altri quanto prima. Da leggere.

Gerry Gherardi nasce a Pontedera un sabato d’agosto del 1978 alle 9,30 di mattina, faceva caldo e tutti erano in ferie. Dopo vent’anni passati a respirare l’aria dei campi di grano toscani si trasferisce a Roma dove frequenta la scuola di teatro “Ribalte” sotto la guida del Maestro Enzo Garinei. Debutta in teatro con Francesca Draghetti in “Terapia di Gruppo” di Christopher Durang, primo spettacolo di una lunga serie che scandisce una prolifica collaborazione. Doppiatore e sceneggiatore mette in scena due monologhi e una parodia per quattro attori. Il quadro del mondo è il suo primo libro.

articolo di Angelo Gasparini

Autore: Gerry Gherardi

Titolo: Il quadro del mondo

Editore: Edizione Ensemble

Anno: 2012

Pagine: 70

Prezzo: 10,00 euro

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Simoni letto da Pesce

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Chi fosse realmente Ignazio da Toledo, nessuno avrebbe saputo dirlo con certezza”. Il tono di voce incisivo e avvincente di Stefano Pesce legge Il mercante di libri maledetti di Marcello Simoni (Emons Audiolibri 2012). Il bestseller, ambientato in pieno Medioevo nell’anno del Signore 1205, narra la storia di un libro esoterico e misterioso e delle peregrinazioni di un mercante di reliquie “dai lineamenti moreschi”, che deve fuggire dalla bramosia di una setta che vuole possedere il prezioso volume, tra Spagna, Francia e Italia. Il libro dei record (10° nella classifica, da sette mesi nella hit, dei libri italiani con 26 edizioni in 6 mesi) uscito lo scorso ottobre da Newton Compton, ora è in versione audiolibro per regalare un nuovo modo di addentrarsi alla scoperta di un lontano passato sempre affascinante. Per quale motivo l’Uter Ventorum, l‘Otre dei Venti è così ambito? Quale prodigioso mistero contiene? “Si potrebbe supporre che l’otre sia il metodo, il talismano in grado di vincolare gli angeli, di costringerli a manifestarsi.” Un’autentica caccia al tesoro tra riti esoterici, magie e alchimie che la voce di Stefano Pesce, bravo attore teatrale, cinematografico e televisivo, rende ancora più incalzante. Il mercante di libri maledetti nato dalla fantasia entusiasta e appassionata di Marcello Simoni ha recentemente ricevuto il Premio Selezione del Bancarella, giunto questanno alla 60^ edizione. L’importante premio sarà consegnato a tutti i finalisti della sestina l’8 giugno prossimo a Cesena, mentre il 22 luglio a Pontremoli i 200 librai che costituiscono la giuria del Premio sceglieranno il vincitore assoluto della 60^ Edizione. “… Ignazio non era un uomo comune. Il mercante guardava la vita da un’angolazione molto personale, sempre barricato dietro un sorriso sfuggente, dietro occhi che scrutavano senza lasciarsi scrutare”.

Come si è preparato, Stefano, per entrare nella complessa personalità di Ignazio da Toledo le cui “azioni nascondevano sempre un secondo fine”? Per fare personaggi complessi secondo me bisogna pensare che ognuno di essi è fatto da vari personaggi. Questo è uno di quei casi. La letteratura ne è piena. Il punto di contatto di questi personaggi è lo snodo della storia. Lo stesso scrittore mi suggerisce a quali personaggi riferirmi. Quando le azioni nascondono sempre un doppio fine è molto interessante recitare, perché la realtà letterale si discosta molto dalla realtà drammatica.

Aveva già letto questo intrigante thriller medievale? No, ma sono rimasto felice nel vedere la storia. Ha un forte impatto visivo che facilita la formazione delle immagini per il racconto verbale.

L’esperienza con la Emons che cosa ha aggiunto alla Sua carriera di attore? Sì, sono contento di avere incontrato questa realtà molto intelligente e motivata. Di natura ascolto i consigli che mi vengono dati, per cui il rapporto con Emons è stato molto creativo.

Qual è secondo il Suo giudizio l’attrattiva del libro letto ad alta voce? Ogni libro letto ad alta voce fa entrare letteralmente in un altro mondo, si passa dal 2D al 3D. Si passa dalla letteratura alla vita. Dalle idee ai fatti. Insomma si scrive per essere vissuti.

Marcello, la figura di Ignazio da Toledo Le ha dato molte soddisfazioni, la più recente è il Premio Selezione Bancarella. Si aspettava tutto questo successo? Assolutamente no, non ci pensavo proprio. Ero già felicissimo per l’ottimo riscontro ottenuto dal pubblico e per il passaparola che ha permesso al Mercante di restare nelle classifiche dei libri più venduti in Italia per oltre sei mesi. Trovarmi finalista a un premio importante come il Bancarella, ma anche come il Salgari, è l’ennesima sorpresa e soprattutto l’opportunità di maturare ancora. Prima o poi dovrò fare un pellegrinaggio in Andalusia per rendere un omaggio simbolico a Ignazio da Toledo. Glielo devo, in fondo.

Nell’interpretazione di Stefano Pesce ha ritrovato le stesse suggestioni che hanno fatto la fortuna del Mercante? Stefano Pesce, di fatto, ha riscritto con la propria voce il Mercante, conferendogli un’intensità nuova, quasi indipendente dalla dimensione della carta e dell’inchiostro. Le suggestioni insite nel romanzo non hanno potuto che trarne giovamento. D’altronde la mia scrittura ha un’impostazione visiva ed è facile ad adattarsi a simili trasposizioni. Confesso che per la prima volta, ascoltando l’audiolibro, ho gustato il romanzo come se non l’avessi scritto io. Ringrazio Stefano per questa esperienza e ne approfitto per esprimere la mia gratitudine anche a Emons, soprattutto alla squisita Silvia Nono.

Forse è scontato domandare a un bibliotecario se il mercato dell’ebook e dell’audiolibro in costante crescita di vendita sarà in grado di soppiantare il caro vecchio volume a stampa… A causa dei miei molteplici interessi, amo spesso contraddirmi. Sono bibliotecario e medievista, eppure sono anche appassionato di heavy metal e suono la chitarra elettrica. Questa dicotomia si riscontra pure nel mio attaccamento ai libri cartacei (specie se antichi) e, allo stesso tempo, al mondo digitale. La mia speranza è che queste realtà continuino a coesistere. L’ebook, supportato dalle nuove tecnologie, gode di enormi potenzialità ed è in grado di raggiungere un bacino di lettori molto vasto, giovane e curioso. Altrettante potenzialità le possiede l’audiolibro, che si allaccia alla tradizione antichissima dei racconti orali, precedente addirittura all’idea del libro scritto. Ho sempre pensato che ascoltare una storia abbia il potere di farci ritornare bambini, almeno per un po’, quindi ben venga! La mia devozione di lettore va però al libro scritto e cartaceo. Non me ne vogliate, ma sfogliare pagine di carta e ammirare la propria libreria ha un fascino tutto particolare e assolutamente insostituibile.

Infine una domanda degli appassionati: ci può svelare in anteprima la data di uscita del secondo volume della Trilogia? La prossima avventura di Ignazio da Toledo approderà in libreria nel settembre 2012. Il Mercante ha in serbo molte sorprese…

Stefano Pesce esordisce a teatro con La rosa tatuata di T. Williams per la regia di G. Vacis. Lavora con L. Ronconi in Questa sera si recita a soggetto. Tra i suoi film, Da zero a dieci di Ligabue e Ma che colpa abbiamo noi di Carlo Verdone. È uno dei protagonisti della serie televisiva R.I.S. Torna al teatro interpretando Caligola di Camus. Ultimamente partecipa alla serie televisiva Il XIII apostolo.

Marcello Simoni è nato a Comacchio il 27 giugno 1975. Laureato in Lettere, ex archeologo e ricercatore storico svolge ora la professione di bibliotecario. Ha all’attivo diverse pubblicazioni di etruscologia, storia e agiografia. Ha partecipato all’antologia 365 racconti horror per un anno a cura di Franco Forte (2011). Altri suoi racconti sono usciti per la rivista letteraria Writers Magazine Italia e scrive saltuariamente per la e-zine Carmilla on line. Il mercante di libri maledetti, il suo primo romanzo già pubblicato con successo in Spagna nel 2010, gli è valso il premio “What’s up Giovani Talenti 2011”. Verrà tradotto e pubblicato all’estero in altri otto Paesi.

Autore: Marcello Simoni

Titolo: Il mercante di libri maledetti di Marcello Simoni. Letto da Stefano Pesce

Editore: Emons Audiolibri

Anno di pubblicazione: 2012

Prezzo: 9,90 Euro

1 CD MP3, versione integrale (9 ore e 30 minuti)

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“Nuove poesie”

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Come l’anguilla citata (Marianna Montale, p. 9), anche il poetare di Fabrizio Miliucci è cosa che sfugge alla facile presa, alle categorie, ai casellari, agli schemi usi del recensore. Ho scorso veloce, lettore affrettato, fino all’inganno. Al culmine indotto, e non lo vedevo, di sensi a convergere al sé disvelato. Letta la pagina 29 (molte, le poesie senza titolo), bozzetto gustoso di detonante sarcasmo, capita la cifra dell’uomo-poeta non solo ho riletto, ma anche apprezzato. C’è un io errabondo, in questa raccolta, a tradurre per versi uno sguardo sul mondo. Passi la scelta non sempre sensata (cedi all’icona, ragazzo di facebook?) del corpo variante (succede un po’ troppo, e a volte sparpaglia: p. 56): magari son urla, o corsivi negati; passi quel quote di stampo dantesco (ci tieni alla laurea, vademecum al poetare – a p. 47, casuale cabala): gli echi sono tanti, preziosi – ricorda – di più i celati.

Lo stile s’impenna di cose minute: si è grati a Fabrizo del tanto variare, del cogliere infra e con piglio anti-dolente (una lode: di giovani in cupio dissolvi ne abbiamo, sia detto, gonfia la sacca) il rivolo lirico del mondo che accade. Un dubbio d’intenti ne Al funerale (p. 5), una sposa-bambina ben presto ingannata (p. 33), un principio d’anno piuttosto molesto (p. 40), un epilogo in moto –in auto, pardon (p. 50), Latina e dintorni in labile secco (p. 59). Poesia Per il paradosso di lingua e d’affetti, campione in E io (p. 20); avanguardia (altra lode per l’autoironia) in Poesia originalmente intera fatta a pezzi (p. 23).

Anche la prosa è all’altezza del tutto. Qualche sentenza: Romanzo (confidenza amicale del Gioberti a uno) (p. 10, e poi 34 e 37); un omaggio postremo: Bibliografia (p. 16), un dialogo folle dai ritmi serrati / venato di bello / per un ritornello / per questo alla bocca / come filastrocca: Il muto (p. 25). C’è un senso di Dio (citato una volta ma per formulario: p. 57) calato, trasposto, e persona in carne e costumi; ecco Mosè (p. 48),ecco il Redentore: Cristo la tigre (p. 39; e con quanto rispetto, e con quanto dolore). L’amore non manca, ma è bello scoprirlo (per l’eco dolente chi scrive s’astiene dal recensire una biografia).

Un augurio, in chiusura: mai gli sia scarsa negli anni a venire al contegno la cifra, alla mano la vena (p. 52, bel manifesto d’etica e penna e splendida immagine di zoo-questuante).

Fabrizio Miliucci è nato a Latina il 9 luglio 1985. Laureato in Italianistica presso l’Università di Roma Tre con una tesi sugli autocommenti poetici del ‘900 dal titolo “I critici di sé”, è alla prima pubblicazione.

articolo di Andrea Viviani


Autore: Andrea Camilleri

Titolo: Nuove poesie

Editore: Perronelab

Anno di pubblicazione: 2010

Prezzo: 10 euro

Pagine: 74

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