Topol e l’Officina del diavolo

topolIl nome che hanno utilizzato per lui – la critica sente sempre il bisogno di farlo – è Hrabal. Che è un riferimento impegnativo, evidentemente, trattandosi dell’autore più importante del secondo novecento ceko. Non so, certo Jachym Topol si difende benissimo. Ancora in banale metafora, attaccando. Sì perché L’officina del diavolo, breve ma esuberante romanzo tradotto da Zandonai, è un fiume in piena di invenzioni e funamboliche ricostruzioni di un mondo impazzito: nella realtà storica e nella sua delirante, raccapricciante rappresentazione successiva.

Tezerin, borgo ad alcune decine di chilometri da Praga – dapprima piccola fortezza in cui trovò la morte fra gli altri Gavrilo Princip – “ospitò” migliaia di deportati ivi concentrati dai tedeschi: molti vi morirono, altri furono poi portati ad Auschwitz. Il narratore, assieme a un gruppo di folli e cinici figuri – grotteschi e assurdi quanto si vuole ma tutt’altro che inverosimili – pensa bene di reinventare il campo di concentramento a uso e consumo dei turisti. Decidono di farci un business, insomma. Di replicare la pazzia traducendola in spettacolo, secondo deriva tutt’altro che trascurabile della nostra epoca, capace di trovare denaro dappertutto. Il trucco è la “rivitalizzazione di luoghi di sepoltura”. Dalla pratica “attiva” della memoria all’opportunismo mercantile insomma il passo è breve. Il bisogno dei giovani di trovare memorie ancestrali di se stessi, dei propri famigliari, dei traumi non vissuti se non da altri, rischia di diventare un esercizio estetizzante e gli inventori di queste specie di “musei viventi dei morti” lo sanno bene. Sanno che per molti la faccenda si risolve con il farsi fotografare accanto ai “pancacci” e morta lì. Lo sa bene con tutto il suo candore anche il narratore, che fa parte della comune che lucra sulla tragedia. Ma l’orrore smette di esser solo didascalico perché Topol sa raccontare. Diverte e commuove. Il passo della sua voce narrante, un ragazzo “che beve”, ingenuo ma non troppo, scavezzacollo la sua parte, figlio di una donna completamente andata di testa, inadatto al servizio militare, a suo agio con le capre –  costruisce il racconto con sapienza. La paratassi che accumula visioni, oggetti, luoghi infernali (“ci calavamo nelle catacombe, sguazzavamo in pozzanghere piene di tritoni ciechi, alla luce delle candele ispezionavamo i bunker e le camere di combattimento sotto i bastioni più esterni…”) è felice e arguta, piena di ritmo, non priva di virile tenerezza. Non smette di esserlo quando l’avventura viene bloccata dalle autorità e il ragazzo è costretto a fuggire in Bielorussia, dove lo assumono subito in quanto esperto per un horror trip di morti mummificati e parlanti: il riesumato di altri eccidi, nazi o stalinisti, poco importa. L’importante anche lì è metter su “il museo all’aperto dei totalitarismi”. L’Officina del Diavolo, già.

Autore: Jachym Topol

Titolo: L’officina del diavolo

Editore: Zandonai

Anno di pubblicazione: 2012

Traduzione di Letizia Kostner

Pagine: 165

Prezzo: 14,50 euro