Claudio Vergnani: un dialogo su lettura, scrittura e horror

vivi-vergnaniClaudio Vergnani (Modena, 1961) è considerato uno degli autori più interessanti della narrativa horror italiana. Svogliato studente di liceo classico e ancor più svogliato studente di giurisprudenza, preferisce passare il tempo leggendo, giocando a scacchi e tirando di boxe.

Dopo una parentesi militare, sbarca il lunario passando da un mestiere all’altro. Nel 2009 la pubblicazione da parte della casa editrice Gargoyle del suo romanzo d’esordio, Il 18° Vampiro (ripubblicato in edizione pocket nel febbraio 2013), ha costituito un piccolo e fortunato caso editoriale, non solo per il significativo successo di vendite, ma anche per l’entusiastica accoglienza di pubblico e critica, confermata dai sequel Il 36° Giusto (2010) e L’ora più buia (2011).

Abbiamo parlato con lui di lettura, scrittura e narrativa horror, con qualche domanda sul suo ultimo romanzo: I Vivi, I Morti e gli Altri.

Ogni scrittore, prima di essere tale, è senza dubbio un lettore. Tu che tipo di lettore sei? Quali sono stati per te i libri fondamentali, e quali sono quelli che tieni adesso sul comodino?
Dici bene, infatti di solito mi definisco un “lettore che scrive”, più che un vero e proprio scrittore.
Leggo di tutto da sempre. Fumetti a parte, penso di aver iniziato con un giallo per ragazzi Mondadori, che peraltro non mi impressionò (ero molto piccolo, ma mi suonava già come poco plausibile, troppo edulcorato, troppo manicheo). Non ho un genere preferito. Dipende dal momento. Anche perché una rigida catalogazione mi appare terribilmente limitante. Borges, per citare uno dei miei autori preferiti, ha scritto ottime storie gialle. Così Chesterton. Ma anche Hemingway, Dostoevskij, Gogol. L’Odissea poi, volendo, ha molti elementi horror (soprannaturale e creature mostruose inclusi), eppure non si limita a elencare orrori e atrocità, ma al contrario tocca corde profonde dell’animo umano. I generi sono una guida per orientarsi, ma a mio avviso non vanno presi troppo sul serio.

Qui in Italia il genere horror non è una forma di letteratura che ha mai avuto molto seguito, tu come ti sei appassionato a questo genere? Quali sono gli autori, i libri, ma anche i film che hanno contribuito a costruire il tuo immaginario dell’horror?
Dovrei stilare una lunghissima nota. Diciamo che sono estremamente interessato alla linea che unisce il “vecchio” al “nuovo”. È tra le pieghe di quella linea che si cela ciò che è veramente essenziale nel narrare, e che cattura il lettore. In quella linea ci sono tutti i successi e i passaggi a vuoto, grandi o piccoli, che la letteratura ha affrontato fino ad oggi, anche se forse questo confronto appare più chiaro nei film piuttosto che nei romanzi. C’è anche da dire – almeno questa è la mia convinzione – che, oggi, a parte le solite eccezioni, probabilmente è il cinema a cercare la novità, mentre molto spesso, per ragioni squisitamente utilitaristiche, il romanzo tende più a replicare il già visto (o quel già visto che va di moda in un dato momento).

Chiaramente c’è sempre una parte di autobiografismo in quello che scriviamo, per quanto elaborato. C’è qualcosa di cui avevi particolarmente paura da bambino, qualche babau, che poi è tornato nei tuoi libri?
No. Ho più che altro sempre avuto paura di quel può accaderci se abdichiamo al ruolo di esseri umani. E oggi sono più spaventato che mai. Non ho mai sognato mostri, che io ricordi, ma solitudine e abbandono sì. Con i mostri avevo già fatto pace da piccolino. Con il resto non si finisce mai di confrontarsi.

Parlando ancora di letteratura horror c’è un autore o un titolo che ti senti di consigliare in particolare? Magari qualcuno (o qualcosa) quasi dimenticato o passato in sordina che dovrebbe essere riscoperto e messo sugli scaffali…
Mi verrebbe da citare me stesso. Scherzi a parte, direi James Herbert, ammesso e non concesso che sia stato dimenticato. E il suo Il superstite mi fa venire in mente che ancora una volta è il cinema che si fa carico di ricordarci i vari Bradbury, i Matheson (non sempre onestamente), i Bloch, ecc …
Però, per dare qualche input concreto a chi legge, suggerisco La specialità della casa, di Ellin Stanley, che non credo sia molto conosciuto, ma che merita di essere letto.

Come e perché hai iniziato a scrivere? C’è stato un momento, un detonatore, che ti ha fatto pensare “adesso voglio mettermi anch’io a scrivere una storia?
Posso dire di aver iniziato nel momento in cui ho cominciato a leggere. Mentre seguivo gli intrecci una parte del mio cervello elaborava (improbabili) varianti. Poi, un giorno, mi sono messo davanti ad un PC.

C’è un momento particolare e un luogo in cui ti piace scrivere? Com’è la tua scrivania, o il tuo studio, se ne hai uno?
Uso un portatile e scrivo su un tavolo vicino a una finestra. Niente di che. Ma il luogo non è vincolante (certo, evito di scrivere nel mezzo di un cantiere in attività). Naturalmente desidererei anche io possedere un bungalow in Giamaica con vista sul mare come Jan Fleming, ma onestamente vedo tale prospettiva come molto improbabile.

Potresti raccontarci qualcosa su come nascono le tue storie e su come le scrivi? Che metodo usi come scrittore?
Cerco un’Idea. Se l’Idea si degna di venire a farmi visita, e mi convince, quasi tutto il resto procede poi in autonomia. Non ho mai in mente dall’inizio alla fine come si svolgerà la storia, ma l’idea, il senso e i personaggi (quelli principali) sì. E se l’Idea non viene, pazienza. Ci sono comunque un sacco di romanzi bellissimi da leggere, anche senza i miei.

Nell’horror spesso, con il pretesto di usare la paura come forma d’intrattenimento, si parla di molto altro. Ma la paura è comunque un pretesto interessante, nel tuo caso perché usare l’horror per raccontare le tue storie?
La paura e la necessità, indipendentemente da ciò che asseriscono Hollywood e Walt Disney, sono i sentimenti che ci mandano avanti. Oggi più che mai. Nella paura nascono tante domande, e nei miei romanzi provo a cercare qualche risposta. Onesta. E molte di quelle che do (e mi do) non mi piacciono.

Tu hai esordito nel 2009 con Gargoyle, e con la stessa casa editrice hai continuato a pubblicare fino ad oggi. Che cosa avevi scritto prima di arrivare al primo romanzo pubblicare? E come si sviluppato nel tempo il rapporto con il tuo editore?
Ho scritto un sacco di cose, ma non sono animato dal voler a tutti i costi pubblicare. Ci sono altre attività nella mia vita, non tutte piacevoli, come per chiunque di noi. Anche quelle richiedono tempo e dedizione. I rapporti con l’editore e il suo staff sono buoni, naturalmente. Vero è che non sono uno che li assilla di telefonate o mail.

Nella letteratura horror, come tutte le forme di letteratura, si attraversano anche dei cicli. Per qualche anno si è scritto molto di vampiri e ultimamente invece sembrano tornati in vita, in tutti i sensi, gli zombi. Anche il tuo ultimo libro parla di zombi, o comunque ce ne sono molti sullo sfondo… è un caso? Come e perché è nato questo libro?
Più che un caso direi un errore, sia pure consapevole. Oggi di zombi non se ne può più. Però – almeno cinematograficamente parlando – lo zombi (la morte, l’orrore fisico e psicologico che essa comporta, in special modo quando il ritorno alla vita ne rappresenta il vilipendio e spinge la capacità umana di tolleranza all’atroce e all’allucinato oltre i propri limiti ) mi ha sempre affascinato. E così, ho voluto provare a dare il mio apporto. Con il mio stile, con le mie idee, con i miei risultati.

Sempre in I vivi, i morti e gli altri si avverte molto la presenza di una critica sociale, della necessità di guardare allo sgretolarsi dei rapporti umani. Allo stesso tempo il tuo protagonista, Oprandi, è un ex militare, un duro che si porta dietro la bottiglia di whiskey, quasi nella migliore tradizione americana. Non pensi che un protagonista del genere possa essere poco credibile, sopra le righe, e che possa togliere realismo a tutto il romanzo?
No, ma capisco cosa intendi. Credo anzi che Oprandi porti con sé una certa idea di umanità terribilmente attuale e sincera. Comunque, chi volesse farsi un’opinione non ha che da leggere il romanzo.

Per concludere quali sono i tuoi prossimi progetti? Stai già mettendo mano a qualche nuova idea?
Cosa posso rispondere? Aspetto l’Idea di cui parlavo. Se arriverà sarà la benvenuta. Diversamente vorrà dire che sarà arrivata a qualcun altro.