“Le ore invisibili” intervista a David Mitchell

davidmitchell-570x300Holly Sykes, protagonista de “Le ore invisibili” di David Mitchell (Frassinelli 2015, pp. 600, 19.50 euro) sembra una ragazza qualunque, ma ha il dono della prescienza. Per questo è oggetto del desiderio di due fazioni, orologisti e anacoreti, che si combattono da sempre tra questo mondo e altre dimensioni. La battaglia e la vita di Holly attraverseranno i decenni, dall’Inghilterra della Thatcher alla guerra in Iraq, fino a un futuro che vede la terra sull’orlo della catastrofe ambientale, in un romanzo che è un intreccio di storie, di realtà e fantasy. Sullo sfondo, l’eterna lotta tra bene e male.

Come ti sono venute in mente le due fazioni degli orologisti e degli anacoreti, questa lotta tra bene e male?

Non credo che gli anacoreti siano completamente cattivi, così come gli orologisti non sono completamente buoni. Come nella realtà, bene e male non sono completamente distinguibili, non è tutto bianco e nero ma esistono diverse sfumature. Il confronto è la base della narrativa, ma questo confronto è più interessante quando anche nei personaggi demoniaci c’è qualcosa di angelico, e viceversa.

L’immortalità è un desiderio umano, che diventa tratto diabolico nel tuo libro.

L’immortalità è vecchia come l’uomo, perché lo è altrettanto la paura della morte. Ho voluto parlare di una per parlare anche dell’altra.

Il tuo libro ha qualcosa di dickensiano, tante diverse storie interconnesse. C’è ancora spazio per romanzi lunghi e complessi?

Dickens è stato un maestro nelle lunghe narrazioni, ha inventato vere e proprie tecniche per catturare e mantenere l’attenzione del lettore. Per scrivere romanzi con diverse storie bisogna bilanciare forze centrifughe e centripete. Sì, c’è ancora spazio per lunghe narrazioni, che anzi sono quelle che più sanno ancora catturare il lettore.

Da dove viene il personaggio di Holly?

Quando andavo a scuola conoscevo una ragazza che veniva da una famiglia povera. Un vero maschiaccio, con una natura indomabile. Volevo raccontare un personaggio femminile, e per Holly mi sono ispirato a lei.

Qual è il tuo preferito dei personaggi tra i tanti del romanzo?

Amo tutti i miei personaggi, anche quelli malvagi. Per raccontarli bisogna entrare in ognuno di loro, pensare come loro, star loro vicino.

Quanto c’è di te in Crispin Hershey, il personaggio dello scrittore?

Crispin è me senza mia moglie e i miei figli, che mi hanno reso umile. Holly è per lui l’unica opportunità di redenzione, la prima vera occasione d’amore della sua vita.

Al quotidiano inglese The Guardian hai detto che questo è il romanzo della tua “crisi di mezz’età”: per questo hai scelto di concentrarti su temi di attualità come la guerra in Iraq e il riscaldamento globale?

Quando si arriva a quarant’ anni si inizia a essere meno egoisti, più consapevoli del mondo. Si diventa più scettici nei confronti delle soluzioni semplicistiche ai problemi. Si diventa realisti, e questo ci rende non necessariamente più pessimisti, ma ottimisti più consapevoli. Si impara a credere nei piccoli passi, e non nelle grandi rivoluzioni, per cambiare le cose.

Il tuo libro sarebbe stato ugualmente bello senza la parte fantasy?

Mi piace scrivere quello che vorrei leggere. Gli esseri umani amano pensare al mondo com’è ma anche come non è, e il, fantasy racconta questa parte. La maggior sfida del libro è stato combinare il fantasy con grandi temi di attualità e politica restando credibile. Il mio prossimo libro però non avrà elementi fantasy.

 

David Mitchell è nato nel 1969 a Southport, nel Lancashire. E’ laureato in Letteratura inglese e americana e ha conseguito un ulteriore diploma in Letteratura comparata mentre lavorava in una libreria di Canterbury. Ha vissuto in Giappone, insegnando inglese, dal 1994 al 2003, quando si è trasferito in Irlanda con la moglie e i figli, e ora si dedica a tempo pieno alla scrittura. Per Frassinelli ha pubblicato “Nove gradi di libertà”, vincitore del Mail on Sunday/John Llewellyn Rhys Prize e finalista del Booker Prize, “Sogno numero 9”, “A casa di Dio”, “I mille autunni di Jacob de Zoet”. Da “L’atlante delle nuvole”, anch’esso finalista del Booker Prize, è tratto il kolossal dei fratelli Wachowski, “Cloud Atlas”.