“Qualcosa di scritto”. Trevi racconta Pasolini

trevi_qualcosa-di-scritto2Non mi capitava tra le mani un libro di Emanuele Trevi da quando Castelvecchi, dieci anni orsono, rimandava in libreria il suo esordio “Istruzioni per l’uso del lupo” (1994).

Una «lettera sulla critica» (inviata all’amico Marco Lodoli), che, se da un lato faceva definitivamente i conti con certo accademismo e teoricismo funesti e deteriori, dall’altro, assai spesso, finiva per sciogliersi in formule di vacuo, astratto e talvolta ingenuo impressionismo.

Elucubrazioni «irragionevoli e contorte» (come sospettava lo stesso Trevi potessero suonare per il lettore) sulla letteratura e la critica dove, più che dire, si limitava a suggerire, lasciare, come il Serra delle Epistole, intuire; impedendo che la supposta autobiografia intellettuale si traducesse, concretamente, in esperienza critica da condividere con il lettore.

Oggi, con “Qualcosa di scritto” (Ponte alle Grazie, 2012) recupera in chiave narrativa l’esperienza contigua a quell’esordio, ossia l’apprendistato al Fondo Pasolini, l’iniziazione alla corte di Laura Betti, La Pazza (l’attrice di Teorema), sorretto dalla inossidabile convinzione (peraltro da noi pienamente condivisa) che la letteratura, non è, non può mai essere, un mero recinto di sospensiva ricreazione dall’«altro» della vita.

Ne viene fuori un libro (non ci si lasci ingannare dall’indicazione che recita “romanzo”, in copertina) metà autofiction metà saggio narrativo; l’ibrido tentativo (questa volta pienamente riuscito), di far cortocircuitare vicenda autobiografica ed occasione critica, vita e letteratura. La rievocazione degli anni di frequentazione del palazzone di via Prati dove si trova il dedalo di carte del Fondo, costituisce così l’opportunità, per il critico-scrittore, di schizzare un trittico di ritratti dove, accanto (com’è naturale) al suo («zoccoletta», questo l’appropriato soprannome con il quale lo battezza da subito la Betti), trova posto quello della Pazza, tiranna incontrastata di quel regno, reclusa nel suo cosmo di passione-venerazione, devozione irrimediabilmente insoddisfatta per P.P.P., e che per il nostro diviene da subito un testo «sgradevole» ma «pieno di rivelazioni», nel suo discorso pronto ad esplodere sempre nel turpiloquio improvvisato («carcere piranesiano di malanimo e disprezzo»); insieme al ritratto del Pasolini estremo, quello più misterioso, della postuma incompiuta (?) cattedrale di scrittura che è Petrolio.

Il moto d’idiosincrasia che istintivamente nutriamo verso quelle assai disturbanti letture della vita e dell’opera di P.P.P. in chiave politico-sociologica o come grimaldello per sondare dinamiche collettive (e personalmente sul primo Pasolini e su certo suo cinema ho più d’una obiezione), mi ha fatto apprezzare, e molto, l’approccio privilegiato dal critico. E non v’è dubbio che libri come quello di Belpoliti (Pasolini in salsa piccante, 2010) o quest’ultimo di Trevi, non possano non giovare senz’altro a restituire, scevro da incrostazioni e pregiudizi di qualsiasi risma, Pasolini a Pasolini. E non possiamo non condividere la boutade per cui, nel suo complesso, la critica su Pasolini costituisce «una delle creazioni più noiose dello spirito umano». Oltre a restituirci poi la figurina scabrosa di un P.P.P. «molesto», capace di sconvolgere piani esistenziali, la fisionomia interiore di chi fosse venuto in qualche modo a contatto con lui (e la vicenda della Betti riuscirebbe in tal senso emblematica), Trevi prende le distanze (ulteriore prospettiva che ci fa ancor più apprezzare il suo lavoro) dal romanzesco intrigo intorno a Petrolio e dal presunto complottismo su cui tanto si ricama a sinistra, che vorrebbe il romanzo addirittura essere costato la vita allo scrittore per le verità scomode cui sarebbe venuto a conoscenza, con la storia, ormai vecchia, del capitolo mancante intitolato Lampi sull’Eni cui si rimanda in un passo dell’Appunto 22a.

Così riconducendo quell’informe e irriducibile creatura (fin dal titolo scelto) alla sua più aderente definizione: appunto Qualcosa di scritto (si rammenti l’Appunto 37); concezione inclassificabile e volutamente incompiuta che diviene un guardarsi allo specchio,  «vivere la propria creazione fino alla fine della vita». Sulla scia di questa inscindibile identificazione tra vita e letteratura, vita e arte, viene inteso come la maniera estrema di lavorare di P.P.P., tanto nel cinema quanto in letteratura (equivalente di Petrolio, a tal riguardo, sarà il suo ultimo film da lui scritto e diretto, Salò o le 120 giornate di Sodoma), sia profondamente segnata dalla consapevolezza di un simile radicale attraversamento.

Potente rapsodia sul tema del doppio, l’estrema opera di P.P.P. è perciò giustamente letta da Trevi come viaggio corporeo ed iniziatico: un rito piuttosto che un semplice romanzo. Rituale che trova nella metamorfosi (di Carlo Valletti e del suo doppio) il necessario viatico per una superiore conoscenza, conseguente alla visione rivelatrice che rende coscienti dello stadio definitivo di degradazione dell’umanità. Chiaroveggenza che, per il modo di compiersi (come avverte lo stesso Pasolini), rievoca una «lunga tradizione misterica» che ha il suo modello negli antichi misteri eleusini. E dove è frequente l’uso di simboli sessuali come nel rito dell’anásyrma, ossia l’esposizione dei genitali femminili a una divinità allo scopo di indurla al riso e alla benevolenza. Così come all’azione salvifica del riso è legata l’altra «archeologica citazione» (si veda l’Appunto 74) della statuetta gastrocefala che il secondo Carlo, al termine della visione finale del suo viaggio iniziatico, vede incornicata entro un tabernacolo, con su scritto: «ho eretto questa statua per ridere».

Se Petrolio viene restituito entro una più quadrata interpretazione, non meno consonante e accordata è la lezione che l’apprendista Trevi può ricevere, non senza gratitudine, dalla spinosa vicinanza con la Pazza, specie per quel nocciolo di verità contenuto nel suo elogio della rabbia: «è la rabbia la cosa più importante, né le idee, né il talento in primo luogo, ma la rabbia».

A chi infine rimproveri al critico di abbandonarsi ad un impulso mimetico seguendo, anche narrativamente, la pista misterica come privilegiata entratura ermeneutica per sciogliere il senso ultimo di Petrolio, lasciando sullo sfondo il consueto santino del Pasolini civile e impegnato, credo si possa facilmente ribattere che è proprio in un simile scarto prospettico che sta il senso, altro, nuovo, dell’approccio che Trevi ha voluto offrire con un libro, qualcosa di scritto (anche il suo), che sappia amalgamare, in vista di una diversa possibilità conoscitiva, autobiografia e critica letteraria.

Emanuele Trevi (Roma, 1964) è scrittore e critico letterario. Ha esordito come autore di narrativa conI cani del nulla (Einaudi, 2003) e ha pubblicato per la collana Contromano di Laterza Senza verso (2005) eL’onda del porto (2005). Il suo ultimo romanzo è Il libro della gioia perpetua (Rizzoli, 2010). È autore di numerose curatele e saggi: fra questi, i volumi Istruzioni per l’uso del lupo (Castelvecchi, 1994) e Musica distante (Mondadori, 1997). Ha inoltre pubblicato i libri-intervista Invasioni controllate (con Mario Trevi, Castelvecchi, 2007) e Letteratura e libertà (con Raffaele La Capria, Fandango, 2009). Collabora con la Repubblica, il manifesto, Il Messaggero e Il Foglio. È conduttore di programmi radiofonici per Rai Radio 3.

Autore: Emanuele Trevi
Titolo: Qualcosa di scritto
Editore: Ponte alla Grazie
Anno di pubblicazione: 2012
Pagine: 256
Prezzo: 16,80 euro

* articolo di Domenico Calcaterra