“La sesta stagione”. Intervista a Carlo Pedini

cover_jpg_pedini

La sesta stagione – È il 1934. A Civita Turrita, sull’Appennino toscano, si inaugura con solennità il nuovo santuario, e proprio nel momento di massimo fulgore di questo paese inizia la storia della sua decadenza. Nelle vicende profondamente umane dei tre seminaristi Piero, Ottavio e Oreste, e dei loro superiori, amici, avversari, irrompono gli eventi principali del nostro Novecento, dalla Seconda guerra mondiale al Sessantotto, e oltre fino agli Anni di piombo. Don Piero Menardi racconta dei suoi due colleghi, prima amici inseparabili e poi nemici giurati; dell’infatuazione politica del suo vescovo per il Duce; della guerra che spezza i destini e distrugge le famiglie; di partigiani e delatori; della contesa perenne fra democristiani e co­mu­­nisti nel dopoguerra; di chi si perde nelle lotte studentesche; di preti ribelli che rifiutano l’abito. Nella vita della piccola comunità di Civita Turrita si rispecchiano dunque i mutamenti della Nazione, in una parabola di cinquant’anni dove tutti – religiosi e laici – subiscono l’incedere della modernità. E fra i grandi giochi di potere si rivelano le debolezze di una Chiesa che fati­ca a tenere il passo con un’epoca sem­pre più veloce.

Ho innanzitutto una domanda da farti che non è strettamente legata al romanzo ma che è comunque importante per me. Il tuo non è un esordio in giovanissima età e adesso si tende molto a puntare sugli esordienti giovani. Questo è il tuo primo libro pubblicato ma qual è la tua esperienza di scrittura prima di arrivare a questo romanzo?
Ci sono due aspetti. Un aspetto che riguarda il mio lato professionale, quello come compositore. Ho scritto diverse opere liriche, cinque o sei opere… adesso non ricordo nemmeno il numero, per le quali ho collaborato anche alla stesura del libretto, cioè dei testi. Quindi per quanto riguarda la scrittura drammaturgica, quella scrittura in qualche modo legata al teatro, possedevo già un background. Poi, in realtà, nonostante io non avessi mai pubblicato niente fin da ragazzo ho scritto molti racconti, soltanto per piacere personale. Per esempio, invece, non mi è mai interessata la poesia. Ho visto che ci sono scrittori, come la Avallone, che avevano già scritto della poesia prima di pubblicare il loro primo romanzo. Ma è un settore che io non ho mai “praticato”.

Hai scritto un romanzo che è veramente imponente sotto tutti i punti di vista, è un romanzo molto corposo, quasi ottocentesco. È più volte richiamata l’opera di Thomas Mann I Buddenbrook, in che modo ti sei rapportato a questo romanzo?

In realtà il richiamo a I Buddenbrook è più che un semplice riferimento. Ho utilizzato tutta la struttura del romanzo di Mann, diciamo che l’ho svuotata di tutti i contenuti e ho mantenuto l’intelaiatura. Sono undici parti, ogni parte è divisa in un numero fisso di capitoli. E in quel romanzo ci sono, come in ogni romanzo, ci sono le svolte, i rallentamenti, gli accelerandi… proprio dal punto di vista della drammaturgia del romanzo, come se fosse una sceneggiatura. Io sono stato piuttosto fedele alla sceneggiatura di Thomas Mann. Adesso… se uno deve scrivere una sinfonia ha una struttura di riferimento, io la struttura di riferimento me la sono cercata nel romanzo di Mann perché lo ritengo perfetto dal punto di vista della forma. Da questo punto di vista il romanzo è veramente costruito come un romanzo di fine ottocento.

I Buddenbrook è stato l’unico modello che hai pensato di prendere come riferimento o all’inizio, quando hai iniziato a lavorare al tuo romanzo, ci sono stati altri modelli, intelaiature, che hai preso in considerazione?

Avrei potuto certo sceglierne un’altra di intelaiatura ma ho avuto l’idea dei Buddenbrook immediatamente, senza indecisioni. L’idea iniziale era proprio quella di trovare un’intelaiatura e di trovarla in un romanzo che fosse un capolavoro conclamato, quindi la scelta dei Buddenbrook è stata del tutto naturale perché è un romanzo che ho letto diverse volte e che amo molto.

L’idea che mi sono fatta io è che al centro del romanzo ci sia una grande protagonista che è la Storia, o almeno la storia della Chiesa nel periodo che va dalla metà degli anni ’30 alla metà degli anni ’80, e che ci sia poi una “sotto-protagonista” che è la musica, che ritorna in più parti del libro…
Sì certo, hai letto benissimo. Ci sono due o tre punti in cui si parla esplicitamente di musica e sono quei punti in cui ne parla anche Thomas Mann. Ma in realtà, come hai detto tu, la musica si trova anche al di là di questi riferimenti. Infatti uno dei protagonisti è un cantore, che poi diventa un ex-cantore a seguito di una ferita di guerra, quindi la musica è presente nel romanzo ben oltre quello che è stato il modello di riferimento.

E perché prendere proprio la Chiesa come modello del nostro arco di sviluppo sociale?

L’idea era quella di scrivere della Storia, proprio come dicevi tu, la grande Storia con la “S” maiuscola. Ho scelto di raccontarla dal punto di vista della Chiesa, e di tre uomini di Chiesa, perché volevo raccontare un storia di decadenza, un romanzo di decadenza. Le strutture ecclesiastiche, arrivate a più di duemila anni di storia, vivono comunque un momento di difficoltà, proprio qualche giorno fa il Papa ha detto che “la Chiesa sta vivendo un momento drammatico”. Ecco, la storia della Chiesa negli ultimi anni mi ha dato un espediente per sviluppare tutto il romanzo.

Hai scelto comunque un arco di tempo ben definito, dalla metà degli anni ’30 alla metà degli anni ’80. Avresti potuto scegliere un altro arco di tempo o proseguire fino ad oggi, a un momento in cui la crisi della società è veramente manifesta. Adesso tutta la società è in crisi e la Chiesa è apertamente in crisi, non si tratta più di movimenti sotterranei. Allora perché orientarsi proprio su quel periodo?
Nei Buddenbrook c’è un personaggio, Hanno, che sceglie di seguire una strada completamente diversa da quella del padre, e attraverso di lui si compie il disfacimento della dinastia. A me serviva un personaggio di questo genere e ho pensato di trovarlo in un giovane cantore, orfano di guerra e cresciuto in un convitto per imparare un mestiere. In realtà non è quello il mestiere che vuol fare, vuole diventare musicista e, lavorando per diventare musicista, entra in contatto con la Storia così da trasformarsi alla fine in un brigadista. Quindi, in qualche modo, viene meno ai suoi principi iniziali, lui è l’allievo di un sacerdote e alla fine diventa la disperazione di questo sacerdote, che vede in lui il fallimento di tutto il suo sistema educativo. Quindi la necessità di finire nel periodo degli anni di piombo è stata dettata dal fatto che a quel punto tutta la storia dei personaggi sarebbe arrivata a quel compimento negativo di decadenza di cui parlavamo prima. Andare oltre sarebbe stato inutile, ormai il dramma si era già compiuto.

Quindi sono stati i personaggi a dettare i tempi del romanzo?
Sì, e non solo. Sono stati i personaggi a scovare altri personaggi. Ci sono delle figure storiche nel romanzo, e di alcune di queste figure ne ignoravo persino l’esistenza. Li ho scovati mano a mano che scrivevo nel cercare la documentazione di tutti questi fatti. Faccio un esempio: c’è un personaggio che si chiama padre Lombardi, questo era un oratore che aveva folle di persone al suo seguito e che ha operato tra gli anni ’40 e ’50, quando sono arrivato a quel punto della storia ho scoperto questo personaggio così che ho dovuto documentarmi a lungo anche su di lui. E non è il solo personaggio reale che ho incontrato strada facendo. Un altro esempio: ad Arezzo negli anni ’40 il questore era Antonio Pizzuto, uno che è anche diventato romanziere in tarda età. Mi sono imbattuto in lui per caso, perché Pizzuto a un certo punto si è dovuto occupare del “cattivo” della storia. Ecco, quando ho iniziato a scrivere mai avrei pensato di imbattermi in questi personaggi. Sono arrivati da soli, portati dalla storia e dai protagonisti del romanzo.

Mi hai portato a un’altra domanda che volevo farti. Come ti sei documentato per scrivere il romanzo?
Allora, ho scelto come protagonisti degli uomini di Chiesa perché l’argomento già un po’ lo conoscevo, avevo già letto un gran numero di documenti e di libri sulla Chiesa e sugli uomini di Chiesa. Gran parte della documentazione poi me la sono andata a cercare strada facendo e per questo ci ho messo così tanto a scrivere il romanzo. Ci ho messo otto anni a scriverlo. Mi fermavo, leggevo tutto quello che trovavo sull’argomento, prendevo quello che mi serviva e scrivevo. È stato un tira e molla.

Questo è un romanzo molto particolare, molto difficile da trovare in questo momento letterario. Pensi che ci sia bisogno di tornare a un tipo di romanzo corale e corposo così come lo hai scritto tu?
Sì certo, anche se io in realtà ho avuto anche un modello più recente che è quello di uno scrittore che amo molto, cioè Umberto Eco. Costruire un romanzo mettendo insieme tanti elementi culturali, coì come fa Umberto Eco ne Il nome della rosa per esempio, è stato un po’ il mio modus operandi. Mi rendo conto che è venuto una specie di romanzo dell’ottocento cento anni dopo. Si potrebbe pensare che è un’opera anacronistica ma, come dice proprio Umberto Eco “l’anacronismo è l’unica possibilità che abbiamo per non essere inattuali”. Quindi l’anacronismo consapevole ci rende attuali, anche perché, sempre citando Eco “i libri parlano sempre di altri libri”. In questo senso la struttura ottocentesca è una scelta voluta. Oggi spesso vengono definiti “romanzi” libri che sono solo poco più che racconti. Dal mio punto di vista un romanzo deve descrivere un mondo non soltanto una piccola parte altrimenti, se è monotematico, diventa più simile a un racconto.

Il nome della rosa però, nonostante sia un grande romanzo che molto ha influito sulla letteratura italiana contemporanea e che ha vinto anche lo Strega, è un romanzo che si sviluppa comunque intorno a una vicenda ben definita. Parlando di Storia, di come la intendevamo prima con la “S” maiuscola, a me è venuto subito in mente La Storia di Elsa Morante. Non so se anche tu hai pensato a questo libro mentre scrivevi il tuo.
Sì, questo è un riferimento corretto. In realtà un altro riferimento ideale che affronta la storia in questo senso è I miserabili di Hugo, che racconta appunto quasi un secolo della storia della Francia attraverso i personaggi del romanzo. Anche I pilastri della Terra di Ken Follett mi ha colpito per la sua costruzione, l’ho letto alcuni mesi fa e mi ha impressionato per la struttura narrativa, anche se non mi è piaciuto fino in fondo perché a un certo punto mi sembra che torna sempre su se stesso, ma è comunque un vero romanzo nella forma.

Autore: Carlo Pedini

Titolo: La sesta stagione

Editore: Cavallo di Ferro

Anno di pubblicazione: 2012

Prezzo: 19,90

Pagine: 704