Di un mondo che non c’è più

di un mondoPubblicato postumo nel 1946, Di un mondo che non c’è più (Bollati Boringhieri 2015) di Israel Joshua Singer, avrebbe dovuto essere il primo volume dell’autobiografia, rimasta incompiuta, dello scrittore polacco autore yiddish, fratello maggiore di Isaac Bashevis Singer, Nobel per la Letteratura 1978.


“Il cervello umano è davvero astuto, ed è incredibile la sua capacità di trattenere e serbare come tesori eventi del tutto insignificanti e di scartare deliberatamente cose importanti che preferisce dimenticare!”. Infatti, l’autore per oltre quarant’anni, da quando ne aveva appena due, aveva conservato il suo primo ricordo, come un’immagine vivida. Ecco un edificio alto, illuminato a giorno e molto affollato, si sente molta musica, il piccolo Israel è seduto sulle spalle di “un omone barbuto” mentre il bambino sente scivolare un calzino sulla caviglia e le persone accanto a lui cercano di zittirlo infastidite dal suo piagnucolio. Quell’edificio era la sinagoga di Biłgoraj, in provincia di Lublino, dove Singer era nato, l’”omone barbuto” era Shmul, lo scaccino di suo nonno, rabbino di Biłgoraj.

Quello era un giorno importante, perché si festeggiava l’incoronazione di Nicola II, Zar della Polonia e autocrate di tutte le Russie, anche Israel avrebbe dovuto ascoltare la preghiera che il nonno avrebbe recitato in omaggio al nuovo monarca dinanzi alla comunità ebraica e ai funzionari russi. “Un’altra immagine resta indelebilmente fissata nella mia memoria”. In una radura bianca e coperta di neve vi sono uomini e donne vestiti di nero, la madre di Israel, Basheva Zylberman, “studiosa nata” perché aveva imparato da sola a leggere i testi sacri in ebraico e persino il Talmud, la sorella maggiore dell’autore Esther e l’autore stesso erano seduti su un carro, la gente camminava dietro seguendoli. “Poi siamo dentro una casa” dove ci sono candele accese e lo zio Itche alza un calice di vino recitando la benedizione. Quello era il giorno nel quale il padre dello scrittore, Pinchas Mendl Zinger, “eterno sognatore”, rabbino e autore di commentari rabbinici, discendente da un’antica stirpe di ebrei polacchi, era diventato rabbino di Leoncin, piccola comunità in provincia di Varsavia, un villaggio, più che una cittadina, dalle piccole abitazioni e dalle strade non asfaltate coperte da una sabbia bianca e spessa, perché Leoncin era vicina alla Vistola. “Le case erano piccine, però i tetti non erano di paglia, come nei villaggi dei gentili, erano fatti di scandole e inclinati, di modo che gli uccelli venivano ad appollaiarvisi”.

Molto belle e originali, ma soprattutto realistiche le descrizioni dello shtlet di Leoncin, dove le botteghe erano ingentilite da insegne dipinte, le mercerie portavano immagini di due pezze di stoffa incrociate, sopra le drogherie vi erano in bella mostra coni di zucchero avvolti in carta azzurra e i negozi di ferramenta esponevano pentole, padelle e candele. A Leoncin abitavano circa duecento persone, cioè una quarantina di famiglie, lo shtlet era nuovo di zecca, comunità composta di ebrei campagnoli arrivati dalle fattorie del circondario. Infatti, alcuni anni prima la polizia russa aveva scacciato gli ebrei dalle terre sulle quali avevano vissuto da generazioni, allora i profughi avevano acquistato dal possidente terriero, il nobile Christowski, un appezzamento di terreno sabbioso, per costruirci il loro shtlet. Ed è da qui che partono i primi ricordi di Israel Joshua Singer, di quel mondo che non c’è più, che rivive in modo vivido e ironico in queste pagine-capolavoro.

“Un mattino presto, alla tenera età di tre anni, fui avvolto in uno scolorito e ingiallito scialle da preghiera turco, che aveva una fascia ricamata in argento in cima e un’altra al centro, e mio padre mi prese in braccio per portarmi di peso al cheder di reb Mayer”.

Israel Joshua Singer (Biłgoraj, 30 novembre 1893 – New York, 10 febbraio 1944), esordì nel 1922 con i racconti Perle, in yiddish, e continuò a scrivere in quella lingua anche dopo che si trasferì a New York (1933). La raccolta postuma di sue corrispondenze per il quotidiano Jewish Daily Forward, Da un mondo che non c’è più (1946), costituisce una sorta di autobiografia. I fratelli Ashkenazi, ritenuto universalmente il suo capolavoro, è stato pubblicato da Bollati Boringhieri nel 2011. Di un mondo che non c’è più, titolo originale Of a World That Is No More, è tradotto da Marina Morpurgo.

Autore: Israel Joshua Singer
Titolo: Di un mondo che non c’è più
Editore: Bollati Boringhieri
Pubblicazione: 2015
Prezzo: 11 euro
Pagine: 274