Un avamposto del progresso

covNei decenni scorsi molto si è scritto sull’ambiguità ideologica di Conrad. C’è stato addirittura un tempo in cui la critica si divideva nettamente fra gli entusiasti (indifferenti alla questione dell’ imperialismo o – non saprei dire se sottili – ermeneuti di un’alterità critica del grande scrittore polacco che scriveva in inglese) e i censori, da molti marxisti agli anti-orientalisti come Edward Said.

Resta il fatto, decisivo, che se di ambiguità si tratta, è benvenuta: la letteratura moderna – la migliore – non ne ha mai fatto a meno. A meno di non voler individuare Proust, Kafka e Saul Bellow come capifila di un immaginifico partito progressista (è accaduto piuttosto il contrario, che spesso grandi scrittori siano stati più facilmente reazionari). Caso mai l’ambiguità con cui Joseph Conrad accosta i due mondi rischia di funzionare come il fulcro su cui appoggia il movimento  oscillante della sua opera. A partire dal titolo del breve racconto ora tradotto per Adelphi da Matteo Codignola, Un avamposto del progresso, una delle prime prove dello scrittore (1897), avvicinamento alla grande esplorazione che sarà di Cuore di Tenebra, sia perché lo precede di poco, sia perché i due protagonisti sono fin troppo inadatti all’avventura che li aspetta. Sono due bianchi, catapultati da una compagnia europea nella giungla dell’Africa nera, dove cercano di vendere mercanzia varia per zanne di elefante. Potrebbero farne a meno, hanno lavorato tutta la vita, ma sono stati convinti ad andarci: magari “c’era da alzare un po’ di soldi”. Ma il disagio con cui vivono la situazione si palesa presto. Il narratore ricorda che le nostre sicurezze dipendono tutte dall’abitudine e dalla vita in un ambiente protetto (quello che nel Proust letto da Beckett è l’anticamera della morte – del lento spegnersi delle energie vitali – è anche la sola possibilità di vita per i più).

In quel mondo lontano da casa, nella stazione a suo modo protetta – scevra dei piaceri del caso – quasi come un villaggio vacanze esotico dei nostri tempi, i due faticano a reggere la situazione (peraltro, già per i neri assunti nell’impresa, le tribù limitrofe sono gli altri, e “senza i riti magici delle loro feste, senza gli incantesimi e i sacrifici umani” etc. non se la passano molto bene: non si suicidano nel frattempo perché provengono da una tribù di guerrieri). Quanto ai due europei, il solo essere obbligati a pensare con la propria testa, dopo una vita nella quale del pensare avevano fatto a meno, pare un impegno gravoso. Sordi e ciechi alla giungla che li circonda, non sapendo come passare il tempo, leggono persino dei romanzi, e lo fanno come due Bouvard e Pecuchet. Accadrà qualcosa – che al lettore non sveliamo– che li metterà di fronte al cuore nero di una sostanza ancestrale molto più legata a una catastrofe interiore che con il male (vero o presunto) dell’altro. In questo contesto, che sopravvenga anche la morte è quasi accidentale – benché spesso inevitabile (Conrad peraltro si ispirò a una storia vera). E’ la follia, l’abisso che inghiotte una mente umana l’esito più interessante fra quelli accostati da Conrad nelle sue storie – anche in un racconto come La laguna (a chiudere il dittico di questa edizione, curata da Matteo Codignola) i sortilegi della luce e del buio, dell’aria e del vento, delle ombre che governano il paesaggio agiscono come splendide architetture sospese fra le illusioni e i sogni. Non di rado, in Conrad possono trasformarsi in incubi. Di lì alla follia, il passo è breve.

 

 

Joseph Conrad

Un avamposto del progresso

A cura di Matteo Codignola

Piccola Biblioteca Adelphi

2014,

pp. 124

Euro 12,00