“Le sorelle Soffici”. Lo sguardo straniato di Vettori

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Per poter apprezzare il singolare romanzo confezionato da Pierpaolo Vettori Le sorelle Soffici (Elliot, 2012), bisogna vincere una certa naturale e comprensibile diffidenza, probabilmente dovuta al ricorrere a taluni cliché romanzeschi (tipicamente ottocenteschi) e al materiale narrativo del quale l’autore si serve per costruire la sua storia. Ma il sospetto, man mano che ci si addentra nella lettura, svanisce, forse perché il visionario e il fantastico alla Carroll risultano in Vettori corretti e diluiti, sarebbe meglio dire ibridati, con la percezione (tutta novecentesca) d’una realtà allucinata,  deformata in emblematica figurazione. Compresa, dunque, l’origine di quel sentore un po’ retrò che il libro inevitabilmente porta con sé, s’intuisce chiaramente quale sia l’intenzione prima dello scrittore, impegnato così a tracciare un ritratto dell’attuale, affidandolo pienamente al potere rivelatore della letteratura.

La vicenda narrata è pure, in apparenza, delle più convenzionali: la storia d’una famiglia d’industriali (i Soffici, per l’appunto) al capolinea della loro fortuna, il cui atto finale è raccontato, in un «rapporto redatto in forma di diario», dallo sguardo singolare dell’ultima discendente di casa Soffici, Veronica; creatura specialissima, capace di colloquiare con scrittori defunti e santi guerrieri, che si nutre di mele aromatizzate ai chiodi di garofano, e la cui missione principale è quella di difendere Cecilia, la bella e ingenua sorella, dai pericoli che incombono sul loro destino personale e familiare.

Con una scrittura aggirante, tutta immagini e cose, Vettori sceglie dunque lo sguardo straniato, dalla parte della follia, per raccontare l’assai più crudele e assurda insania della società contemporanea (ma non solo). Strategia che accomuna questo libro, per analogia di cifra e motivazione di fondo (pur tenendo presenti le inevitabili differenze), al recente La Casa del Sollievo Mentale (Nutrimenti, 2011) del palinsestuoso e barocco Francesco Permunian. Muovendosi sul crinale d’una medesima frizione tra realtà e visione, come Permunian anche Vettori giustappone infatti a uno sfondo storico (qui l’Italia del malaffare e di Tangentopoli) una realtà altra, quel sovramondo popolato da fantasmi e visioni partorito dalla mente incendiata di Veronica Soffici; il quale coesiste, d’antagonista, con l’icona perversa e non meno allucinata d’una umanità corrotta e mostruosa, votata ai più bassi istinti; bestiale nelle sembianze cui appare alla coscienza sensitiva della protagonista.

Agone duplicato, messo in abisso, nel teatrino di marionette che le sorelle inscenano nella cantina-rifugio di Villa Soffici (e che chiamano “Lo specchio morbido”, come quello dell’Alice di Lewis Carroll). Contrasto riflesso anche nel chiaro antagonismo dei personaggi: all’universo delle sorelle Soffici, al quale appartengono altre figure stralunate e bizzarre come la combattiva nonna Egle con le sue credenze e stregonerie (impegnata a proteggere Veronica) o il mentalista in bombetta Imre Karnody, proveniente dal terapeutico altrove del mondo circense, si oppone Anton, il Ratto, futuro amministratore delegato delle Industrie Soffici, vera e propria incarnazione del maligno, delle mefitiche alchimie del potere («il Dio di Anton è il piano regolatore»), con il suo stuolo d’amici e losche figure che insidiano le proprietà della famiglia.

Ecco che il tramonto di Casa Soffici può funzionare sia come ritratto visionario dell’endemico e dilagante malaffare italiano, dell’amoralità selvaggia cui il Paese sembra ormai essere irrimediabilmente condannato («vedo la bandiera italiana sporca di marmellata e di merda, e donne bellissime che si tolgono i vestiti e si infilano in bocca mazzette di banconote»), sia come (più in generale) allegorizzazione esplicita del perenne conflitto tra bene e male; e più ancora dell’inesausta ricerca d’una realtà migliore, finalmente libera da ogni offesa dell’umano («ammettere che questo mondo non ci basta, che siamo migliori, che vogliamo di più»). Languore inestinguibile prefigurato dal desiderio di Veronica di conoscere il volto della vera madre (simbolo d’una Bellezza, come del resto la sorella Cecilia che non esiste se non nelle visioni di Veronica, ad ogni costo da salvare). E ancora può funzionare, il romanzo, come viatico personale, privato exemplum perché ciascuno sappia trovare la «ricetta segreta per il proprio veleno».

Insomma, Le sorelle Soffici del talentuoso Pierpaolo Vettori rimane un ottimo esempio di come, per raccontare anche la nostra contemporaneità malata, non sia affatto necessario costringersi nella camicia di forza di un goffo iper-neorealismo di maniera che, a principiare dal linguaggio, stufi il lettore, rendendo ogni libro, per tono, intenzione, stile, replicante dell’altro. E che la Medusa può essere smascherata, sconfitta, dunque esorcizzata, anche e soprattutto grazie al ricorrere a uno sguardo traverso, per così dire strabico, come ci ha magistralmente insegnato nelle sue memorabili e postume Lezioni americane Italo Calvino.

Pierpaolo Vettori è nato a Torino. Appassionato di musica rock, ha lavorato negli anni Novanta a Radio Flash, storica emittente privata torinese. Ha collaborato a lungo con le riviste musicali “Rumore” e “Blow Up”. E’ un fabbro. Scrive da sempre. Le sorelle Soffici, suo secondo romanzo, è stato finalista al Premio Calvino 2011.

Autore: Pierpaolo Vettori
Titolo: Le sorelle Soffici
Editore: Elliot Editore
Anno: 2012
Pagine: 192
Prezzo 16 Euro

Articolo di Domenico Calcaterra