Conversazione con Marcacci

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Gobbi come i Pirenei esce nel 2011. Esordire a 48 anni non è da tutti, viene spontaneo chiedersi: questo è il primo libro che hai scritto o solo il primo che hai pubblicato?

Quello che ho scritto nei ringraziamenti finali del libro è tutto vero. Ho scritto tanto, ma senza una vera e propria finalizzazione. Tante storie abbozzate in vari periodi della mia vita, come schizzi su tele che poi sono state lasciate a marcire in soffitta. Poi un giorno leggo la storia di Randy Pausch e mi cambia la visione del mondo. Randy ha saputo darmi la forza e la carica per convincermi che avrei dovuto provare davvero a fare quello che ho sempre voluto fare, cioè raccontare le mie storie e provare a far star bene la gente che leggesse ciò che so fare meglio: creare suggestioni! Non ho mai avuto l’ambizione di diventare uno stimato scrittore con l’imprimatur di tutti coloro che credono che occorra seguire le regole che ti insegnano nei corsi di scrittura. Quello lo lascio fare a chi scrive libri che sono impossibili da finire e che ti rompi le palle di leggere a pagina venti. No, io ho sempre voluto arrivare al cuore della gente. Parlare al loro bambino interiore per dirgli che forse leggendo me non si imbatteranno in un nuovo Joyce o in un Foster Wallace, ma avranno trovato un amico con cui passare del tempo con il sorriso in bocca. E magari sentiranno la mia mancanza una volta finito il testo. Quella è la mia vera ambizione. Ho pubblicato tardi perché sono anche riuscito a resistere alle sirene dell’editoria a pagamento. L’EAP è il cancro del sistema e va combattuta con tutte le forze. Non pagherei mai per essere pubblicato. È una cosa umiliante e svilisce anche il lavoro di tutti quelli che scrivono davvero e lo fanno con impegno e amore. E bravura. Le case editrici a pagamento andrebbero boicottate in ogni modo, purtroppo hanno anche tutele legali che gli garantiscono un’impunità che non meritano.

Questa è una domanda che può sembrare banale, e che in parte si ricollega con quella sopra, ma che io considero particolarmente importante. Come sei arrivato alla scrittura? Come e quando hai iniziato a scrivere?

Io rido a crepapelle quando leggo interviste di “geni” precoci che si gloriano di aver cominciato a scrivere a sei anni e che già allora erano in grado di poter sedurre e attrarre gente con le minchiate che vergavano sul foglio. Anche io scrivevo da ragazzo, come tutti. Ma un conto è scrivere un diario un conto è trovare il modo di dipanare la matassa per poter riuscire a scrivere anche solo un racconto. E checché se ne dica è un processo di maturazione lenta che non ha paletti predefiniti che varia da persona a persona. Cominci a scrivere cose illeggibili e poi ti affini e poi scopri dentro di te il piacere di farlo e la voglia di migliorare. Poi perdi interesse e ti dedichi ad altre cose, ma se hai il demonio dentro per questa cosa, lui torna a cercarti e ti impone di rileggere ciò che avevi fatto in anni passati. E tu pensi “guarda te che boiata ho scritto”. E ti vergogni e sei felice di non averlo mai neanche proposto a un editore. Poi guardi meglio e trovi, in mezzo alla cacca che hai tirato giù, anche un paio di cosucce carine che ancora ti piacciono e pensi “però, potrei anche sviluppare questo” e piano piano, processo dopo processo, ti ritrovi che senza saperlo sei in grado di scrivere un pessimo romanzo. E là si riparte. Tempo, rilettura, riscrittura e di nuovo pause e poi ancora di nuovo. Fino a quando scrivi qualcosa che qualcuno trova interessante. In altre parole scrivere è fatica. E chi dice il contrario mente sapendo di mentire.

Parliamo del processo di scrittura di Gobbi come i Pirenei. Quanto tempo è passato dal primo barlume di idea al manoscritto stampato e imbustato per gli editori? E, ovviamente, come sei arrivato dall’“inizio” alla “fine” di questo libro?

Moltissimo tempo. L’idea di fondo l’avevo scritta qualche anno prima. Uno degli schizzi di cui ti parlavo. Mi piaceva la storia. Quella storia. Avevo scritto una cinquantina di cartelle e poi avevo detto che poteva bastare. La mia vita aveva sterzato e dovevo seguirla, lontano dal mondo della scrittura. Bollini però ogni tanto veniva a trovarmi in sogno e mi insultava e mi diceva che ero un maledetto perché non gli davo voce. Io pensavo che scherzasse. Fino a quando quel brutto ceffo ha cominciato a perseguitarmi davvero e a dirmi che me l’avrebbe fatta pagare. È stato allora che avendo letto di Randy Pausch e avendo visto la sua ultima lezione (che consiglio a tutti, poiché si può trovare oltre che su libro anche su You Tube pure con sottotitoli in italiano) mi sono deciso a organizzare il lavoro. Se dovevo seguire i miei sogni di bambino, come dice Randy, ho pensato che avrei voluto anche scrivere un romanzo senza regole classiche ma solo con ciò e nei modi che mi sarebbe piaciuto leggere a me. ‘Affanculo i corsi di scrittura e lo stile degli scrittori già famosi. Inutile copiare chi sa fare quelle cose meglio di me, io volevo solo dar voce al mio stile, semmai ne avessi avuto uno. Insomma io volevo un romanzo dove si ride ma ci si commuove, dove si imparano cose nuove o comunque si ha lo stimolo a provare a cercarle. Un romanzo che parlasse di filosofia ma che nella stessa pagina fosse presente Groucho Marx a braccetto con Kant. Un romanzo dove la storia d’amore doveva esserci ma al servizio di un processo che avrebbe dovuto far arrivare al lettore a vedere il mondo con occhi diversi. Sì ok, me ne rendo conto, tutti obiettivi ambiziosi e mal conciliabili. Ma io volevo assolutamente farlo così. Quello mi chiedeva Bollini. E la soddisfazione più grande è vedere che, alla faccia di Foster Wallace e dei suoi seguaci, il mio libro trova tanti lettori che la pensano come me. Questa è la cosa più gratificante di tutto.

Gobbi come i Pirenei non è precisamente un libro sul ciclismo, ma di ciclismo se ne respira comunque tanto. Qual è il tuo rapporto con le due ruote? Sei tu stesso un ciclista o ti sei dovuto documentare per scrivere il libro?

Amo il ciclismo. Il ciclismo è il secondo sport nazionale in Italia dopo il calcio. Non l’ho mai praticato a certi livelli ma a quello amatoriale sì. E come in tutti gli spaccati di mondo ci trovi persone fantastiche e benemerite teste di cazzo. Però davvero credo che nella sua accezione più pura abbia pochi rivali. E quando Bollini dice che insegna salire e scendere le montagne anche della vita è proprio vero. Insomma la vita, come metafora, non trova niente di meglio che il mondo a due ruote. Sofferenza e necessita di non mollare. Senso di squadra e spirito individualistico. Conoscevo già tanto del ciclismo ma lo stesso è stato necessario uno studio su alcuni parti che avrei dovuto conoscere meglio.

Eugenio Bollini ha un rapporto controverso con il suo quoziente intellettivo, in un certo senso lo vive come una gabbia e un’ossessione. Tu hai mai avuto la tentazione di farti misurare il Q.I.?

Io e Bollini siamo fratelli siamesi e quindi abbiamo anche lo stesso Q.I. e pure io soffro delle manie che perseguitano il protagonista del romanzo. Ed è come dici tu. È come vivere in una specie di gabbia maledetta che le persone che non hanno il nostro quoziente non percepiscono, riuscendo a vivere con molta più leggerezza di noi, che la vediamo senza sapere come uscirne. L’ossessione nasce dal fatto che per quelli che invece ne hanno di più di Q.I., la gabbia che noi 130 troviamo sempre chiusa,  ha la porta aperta e possono uscirne come e quando vogliono. Questo è il problemone per quelli che riescono a percepire i drammi del mondo ma non riescono a modificarli. A volte ti viene davvero la voglia di farti asportare un pezzo di cervello per riuscire a non vedere ciò che vedi. Fino ad oggi però non l’ho fatto perché la ASL non mi vuole rimborsare l’operazione. Dice che siamo in tempo di crisi e ci sono stati tagli anche su queste cose.

Bollini è un uomo divorziato, un padre part-time e un ciclista mai realizzato. Il romanzo è una corsa di riscatto dalla mediocrità alla realizzazione. In questo senso si può considerare un romanzo di formazione, definizione che di regola andrebbe applicata a quei romanzi che trattano del passaggio dall’adolescenza alla maturità. Bollini è un adolescente in ritardo? Oppure pensi che ci sia la necessità, arrivati all’età adulta, di una “seconda maturazione”?

Assolutamente la seconda che hai detto. Bollini è il classico uomo che sta per entrare nella sua età “di mezzo” e che deve compiere la seconda maturazione. La prima riesce all’incirca a tutti. Attorno ai 20 anni, chi prima chi dopo, tutti quanti si staccano dal loro habitat adolescenziale e cominciano a vivere. E tutti, chi più chi meno, hanno sempre grandi sogni. Attorno ai 35 arriva un momento in cui si comincia a fare i conti con quello che si è fatto e con quello che avremmo potuto fare. Quello che la teoria economica chiama costo-opportunità. Inevitabili i primi bilanci. E qua, proprio dove si trova Bollini in Gobbi, può avvenire la seconda e più importante maturazione. E, attenzione, non è mica detto che avvenga davvero. Insomma conosco tanti uomini che ancora oggi sono convinti a 50 anni di essere degli scienziati nei loro campi e che solo il caso, la sfiga o qualche amico stronzo non li ha fatti diventare quello che gli era dovuto per diritto divino. In altre parole accettare i propri limiti è la vera seconda maturazione. Accettarli senza farsi del male pensando di essere mediocri, e senza farlo agli altri pensando e dicendo che è colpa loro, è per chi ci riesce una rivoluzione copernicana. Riuscire a volersi bene anche se si comprende che c’è chi è più bravo di te, e riuscire a non invidiare in modo sbagliato chi che invece ce l’ha fatta a raggiungere i suoi sogni

La mediocrità deve necessariamente essere considerato un anti-valore? Si può distinguere una mediocrità positiva da una negativa?

La mediocrità non esiste. Questo è il vero messaggio del romanzo. L’obiettivo principale del romanzo è dimostrare che la mediocrità non esiste. Non che c’è n’è una positiva e una negativa. No, semplicemente non esiste. Esistono dei giudizi che portano a pensare che qualcuno, persino noi stessi, lo siamo davvero. Se riusciamo, come dice Bollini alla fine del romanzo, a scardinare questo lucchetto che è il “giudizio” la porta di cui parlavo prima si apre e possiamo finalmente essere liberi. La mediocrità o la grandezza non esistono se non ci sono degli standard di riferimento. È tutto là. Noi viviamo in un mondo dove ci vengono imposti standard di vita e di comportamento che spesso sono inaccettabili ma che, soprattutto i media, ci inculcano per plasmarci a loro piacimento. Riuscire a liberarci da questi schemi precostituiti è la vera lotta di Resistenza. Bollini ci insegna come farlo. Ben sapendo che ci saranno ricadute e che non sarà una passeggiata. Ma ce la si può fare. Per questo Gobbi è un romanzo di speranza. Se ce la fa Bollini può farcelo chiunque.

Possiamo dire che per Bollini gli antidoti alla mediocrità sono l’ironia e l’amore? Quali sono i tuoi personali antidoti?

Bollini pensa che essere ironico lo protegga dal mostrare a tutti la sua supposta mediocrità. Ma il gioco sta proprio qua. Bollini non è un mediocre. Bollini si sente un mediocre. Insomma è una persona con un Q.I. sopra la media, un professionista nel mondo dello sport, sa pensare, parlare, ha un discreto successo con le donne. Che c’è di mediocre in questo? Niente. Eppure lui si sente tale. È qua che ruota il romanzo. Tra come si è davvero e come ci sentiamo. Tra quello che vorremmo essere e quello che non siamo. Uno può vincere anche un Nobel e sentirsi mediocre. Pare una sottigliezza ma è una cosa fondamentale. Io ho smesso di prendere antidoti perché mi sono accettato per come sono. Non nutro invidia per chi pubblica in case editrici importanti ad esempio. È probabile che loro siano migliori di come sono io, o più funzionali alle logiche di mercato. Chi se ne frega. Sono concentrato su quello che voglio e cerco di capire se posso soddisfare i miei bisogni o no. Ma se non ne ho la capacità non mi faccio più male come succedeva un tempo.

C’è stato un momento della tua vita in cui hai dovuto fare il salto che fa Bollini, da gregario a velocista?

Mi è capitato il contrario. Mi è capitato di esser partito capitano e poi di esser diventato all’improvviso  un gregario. Ed è là che ho capito che, come qualcuno migliore di me ha già detto, è meglio essere capitano della mia barchetta che mozzo nella nave del capitano Achab.

Cosa fai nella vita oltra a essere uno “scrittore”? E come fai a conciliare la scrittura con l’esigenza di mettere in tavola il pranzo e la cena?

Ho una piccola società commerciale che gestisco con mio fratello e un caro amico. La scrittura non paga le bollette. Non a quelli come me. Scrivo quando posso. Come tutti quelli nelle mie condizioni. I precari della penna sfruttano i buchi, i momenti liberi, a volte la notte. Non nego che è un problema dover spiegare in certe situazioni alla gente che ti sta intorno e che vuole parlare di lavoro “vero” del perché io abbia a volte il volto trasognato o lo sguardo perso. Capita a volte che, proprio nei momenti sbagliati, mi venga l’illuminazione su qualcosa che ho pensato di scrivere qualche tempo prima e sulla quale mi ci ero arrovellato per ore. Ed è una vera sofferenza non poter rispondere “presente” ogni volta che il demonio ti chiama. Ma si sa, la vita non è giusta per nessuno

Quali sono i tuoi prossimi obbiettivi come scrittore? E sto parlando di scrittura… non di libri… quella è la prossima domanda!

Bella domanda. Ti confesso allora che il mio prossimo obiettivo è scrivere qualcosa in terza persona. Fino ad oggi ho scritto sempre con l’io narrante. Mi sento molto in confidenza con questa tecnica. È intrigante e permette di esplorare alcuni aspetti interiori ai personaggi che molto si confà al mio modo di scrivere. Sento però adesso la necessità di una nuova sfida che è quella appunto del romanzo in terza persona. Per come la vedo io, il primo modo, incorpora molta più azione di quanta ne è presente in questa seconda che invece abbisogna di più descrizioni che azione. Fino a oggi non l’ho mai sperimentata. Non in modo decente intendo. Ho qualche idea in testa e sto provando a vedere come funziona. Se funziona, soprattutto.

È il uscita il tuo nuovo romanzo. Puoi farci qualche anticipazione?

È un romanzo diverso da Gobbi. Sono diversi i momenti della mia vita in cui li ho scritti ed è diverso anche l’approccio al libro. In Gobbi il messaggio di speranza è molto forte e chiaro. Il tono è finto goliardico con punte di riflessione  che mi piace pensare siano di spessore. In questo nuovo romanzo Il ritmo del silenzio edito da Edizioni della Sera di Stefano Giovinazzo, ci sono soprattutto due temi centrali che regolano la narrazione. La nostalgia per una grande amicizia e il tempo. Due temi a me molto cari al momento. Ho cercato attraverso una storia, che spero possa essere interessante, di raccontare il senso della parola “amicizia”, che spesso è abusata per descrivere qualcosa che non è che semplice conoscenza. E poi di giocare con il concetto di tempo. Questo parametro maledetto della nostra vita terrena che ci inchioda alle sue regole. E allora ho pensato di tirargli io uno scherzo, facendolo andare al contrario, ogni tanto. Qualche volta facendolo accelerare e qualche volta facendolo andare al rallentatore. Ho scritto Il ritmo del silenzio con in mente un blues. Ed è scritto alla maniera in cui viene scritta una canzone blues. Un basso costante che detta il ritmo, che è la voce di un protagonista e una melodia dettata dalla voce di un altro protagonista, che alla fine, nelle intenzioni dell’autore, si fondono per il medley finale. Il libro ha avuto, per molti aspetti, una gestazione dolorosa che ha avuto però come risultato finale quello di averlo fatto diventare solo che molto più caro al mio cuore. Mi piacerebbe tanto che tutti quelli che hanno amato Bollini, amino anche Marco, Totò e Henry che sono i protagonisti di questo nuovo romanzo.

Due (anzi tre) curiosità: Qual è il libro che ti ha fatto innamorare della lettura/letteratura? Quando hai iniziato a leggere?

Lo so, adesso se fossi uno di quegli scrittori “ganzi” dovrei tirar fuori Dostojetsky o qualcosa di simile. Mi chiedi chi mi ha fatto innamorare della letteratura e io invece di tirar fuori un grosso nome ti dico che banalmente quando ero bambino Edgar Rice Burroughs ha davvero cambiato la mia vita. Sono stato influenzato da molti scrittori ma quando ho letto Burroughs e il suo Tarzan  mi si è aperto un mondo di fronte. Quindi è colpa sua se sto qua adesso ha rompere le scatole  perché  quando ero bambino per me Edgar Rice Burroughs è stato davvero magico. Ho iniziato a leggere molto giovane, ma ho sempre amato svariare. Adoravo e ancora oggi non li disdegno persino i fumetti. Mi piace leggere le poesie ma contemporaneamente  non nego occhiate anche a giornali di basso spessore culturale. Tutta questa confusione credo si noti nella mia scrittura.

Puoi confidarci qualche tic o abitudine da scrittore?

Anche se temo che non si percepisca dalla lettura, sono un maledetto perfezionista. Io correggo le mie frasi in continuazione. Non riesco a fermarmi. Sono capace di cambiare parole o verbi o strutture anche venti o trenta volte prima che mi soddisfi la versione definitiva. E poi dopo qualche giorno che la rileggo, penso “No cazzo, così non funziona” e si ricomincia. In effetti mi piace molto più rileggermi e correggermi che scrivere su un pezzo di carta bianca. Alla fine è diventato un vero e proprio tic. Chi mi conosce sa che ad un certo punto devi obbligarmi a dire basta altrimenti io andrei avanti all’infinito.


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