La sorella di Freud per Guanda. Vita solitaria di Adolphine

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Alla vigilia della deportazione degli ebrei nei campi di sterminio. Adolfine Freud vive nell’antica casa paterna insieme alle tre anziane sorelle con le quali condivide il terrore che a breve l’apocalisse nazista possa abbattersi su tutta l’Europa portando con sé la persecuzione della popolazione ebraica.

I primi atti di crudeltà dei soldati nazisti sulle pubbliche strade viennesi, i primi rastrellamenti degli ebrei non si sono fatti attendere: «Sta già accadendo. Queste bestie entrano nelle case del nostro quartiere, ammazzano tutti quelli che trovano. Centinaia di persone si sono suicidate la settimana scorsa, perché non riuscivano a sopportare la tensione. Dei pazzi sono entrati nella casa per gli orfani ebrei, hanno rotto le finestre e hanno obbligato i bambini a correre sui vetri rotti».

È l’avanzata inarrestabile dell’orrore e del totale annullamento del valore umano che il nazismo affermerà in Europa contro i deboli, i poveri, i malati, le minoranze etniche, i nemici.

Non è dello stesso parere Sigmund Freud, il padre della psicoanalisi, mente fra le più eccelse del secolo scorso, colui che ha rivoluzionato per sempre l’immagine che l’uomo ha di sé stesso e del mondo. Formatosi alla fonte del puro spirito tedesco, Freud non poteva concepire l’avanzata della barbarie nazista se non come la conseguenza del temporaneo prevalere di oscure forze sul popolo tedesco.

Così, alla sorella Adolfine, che gli chiede di procurarsi grazie alla sua influenza i visti per lasciare Vienna, risponde: «Non c’è bisogno che ti preoccupi. Le ambizioni di Hitler non sono realizzabili. In pochi giorni Francia e Gran Bretagna lo costringeranno a lasciare l’Austria, e dopo si arriverà alla caduta anche in Germania. Lì saranno i tedeschi stessi a sconfiggerlo; il sostegno che gli danno ora è solo un temporaneo offuscamento dell’intelletto». Quindi non c’è ragione di fuggire. Tutto finirà al più presto.

Eppure, agli inizi di giugno del 1938, Freud abbandona Vienna per rifugiarsi a Londra, portando al suo seguito moglie e figli, ma anche le due assistenti, il proprio medico personale con la sua famiglia e il cane, abbandonando però le quattro anziane sorelle. Condannandole alla deportazione e alla morte in campo di concentramento.

Da questo episodio prende spunto il romanzo del macedone Goce Smilevski, “La sorella di Freud” (Guanda, pp. 336, € 18,00), nel quale Adolfine Freud ripercorre introspettivamente l’arco della propria travagliata esistenza.

Dagli ultimi anni viennesi e dalla deportazione delle sorelle Freud, avvenuta il 29 giugno del 1942 (Freud intanto era morto a Londra nel ’39, il 23 settembre, disattendendo alla promessa che alla fine le sorelle erano riuscite a strappargli di procurarsi anche per loro i visti di uscita dal paese), cui è dedicata la parte iniziale del libro, la narrazione si conclude sugli ultimi istanti delle loro esistenze, nella camera a gas di un lager nazista, strette le une alle altre, nude e tremanti fra anziane donne nude e tremanti, in attesa che insieme all’acre odore che comincia a spargersi tutt’intorno giunga anche la morte a porre fine alla sofferenza, alla memoria e all’esistenza: «Scivolavo nella morte e mi dicevo che la morte non era nient’altro se non oblio. Scivolavo nella morte e mi dicevo che l’essere umano non era nient’altro se non ricordo. Scivolavo nella morte e mi ripetevo che la morte era oblio e nient’altro».

Fra l’uno e l’altro estremo narrativo, il centro dell’opera si compone della rievocazione condotta da Adolfine della propria travagliata e dolorosa esistenza: dall’infanzia vissuta da figlia non desiderata, soffusa da un silenzioso e impermeabile dolore: «Sarebbe stato meglio se non ti avessi partorito» amava ripeterle quotidianamente la madre; al rapporto col fratello Sigmund, prima complice, tenero e totalizzante, quasi incestuoso, poi freddo e distaccato, di una distanza quasi siderale; alla scoperta dell’amore, del rifiuto, dell’abbandono, della morte, alla decisione di non dare alla luce il proprio unico figlio, alla pazzia e all’esperienza del manicomio.

Si dipana una narrazione cupa e malinconica che è lo specchio della condizione dell’animo di Adolfine. La storia di una vita contraddistinta dall’incomprensione e dalla profonda solitudine.

Ciò che risulta deludente però è l’immagine di Sigmund Freud che emerge dalla lettura del romanzo: un uomo chiuso nel proprio mondo iperuranio, di cui è imperturbabile sovrano, anaffettivo, completamente distaccato dal mondo che lo circonda e dai propri cari, immerso nel proprio progetto di sconvolgere definitivamente i consueti paradigmi di interpretazione e comprensione dell’uomo e dei suoi istinti.

Né giova all’impasto narrativo, nel quale Smilevski sovrappone e intreccia reali spunti biografici con altri di pura invenzione, la volgarizzazione e talvolta persino la banalizzazione di alcuni dei principi teorici della psicoanalisi freudiana che fanno capolino qua e là a supporto del racconto autobiografico di Adolfine, facendo più volte venire in mente quanto sosteneva Marcel Proust dicendo che «un libro dove ci sono delle teorie è come un oggetto sul quale si lasci il cartellino del prezzo».

Goce Smilevski è nato a Skopje, in Macedonia, nel 1975. Ha studiato alla Charles University di Praga, alla Central European University di Budapest e alla Ss. Cyril and Methodius University di Skopje, dove lavora all’Istituto di Letteratura.

Articolo di Pasquale Donnarumma

Autore: Goce Smilevski
Titolo: La sorella di Freud
Editore: Guanda
Anno di pubblicazione: 2011
Pagine: 336
Prezzo: 18 euro